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Peteinosauro

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In uno dei primi articoli di questa rubrica abbiamo visto uno degli ultimi e più grandi rappresentanti della famiglia degli Pterosauri, l’Hatzegopteryx, oggi invece parleremo di uno dei più piccoli ed antichi membri del gruppo, il Peteinosauro.

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Innanzitutto c’è da dire che questa piccola creatura era nostra connazionale: il Peteinosauro infatti è stato scoperto in una cava in provincia di Bergamo, nei pressi di Cene. Faceva parte del gruppo dei Dimorfodontidi, il gruppo più antico di Pterosauri attualmente conosciuto, ed aveva un’apertura alare di circa 60 centrimentri. Non esattamente uno dei colossali mostri volanti che vediamo nei film a tema preistorico, insomma! Eppure si tratta comunque di una scoperta importantissima, essendo uno dei più antichi Vertebrati volanti al momento noto all’uomo: sì, conosciamo diversi rettili in grado di planare che sono contemporanei o persino precedenti al Peteinosauro, ma gli Pterosauri sono stati i primi ad essere dotati di tutti gli adattamenti anatomici che gli consentivano di volare sbattendo le ali, e viste le dimensioni ridotte il Peteinosauro sicuramente faceva uso di questa abilità molto più di frequente rispetto ai suoi discendenti giganti.

Un’altra cosa interessante è che il Peteinosauro, pur essendo fra i più antichi membri della sua famiglia, è già uno Pterosauro “fatto e finito”, ossia presenta alcuni caratteri primitivi, ed in effetti c’è chi discute sulla correttezza di collocarlo fra i Dimorfodonti, proponendo di considerarlo una specie cosiddetta basale e di porlo in un gruppo a parte, ma è comunque un rappresentante a tutti gli effetti del gruppo, e non ci sono animali intermedi che presentino caratteri in comune con questo animale vissuti prima di lui, a differenza di quanto accadde con coccodrilli e dinosauri (che formano il gruppo degli Arcosauri assieme agli pterosauri) e non è quindi irragionevole pensare che gli pterosauri siano una delle tipologie di rettili, fra quelle che hanno abitato e dominato la Terra durante l’era dei dinosauri, ad essere comparse per prime: forse i loro antenati potrebbero risalire persino al precedente periodo Permiano ed essere fra i pochi ad aver scampato la grante estinzione avvenuta alla fine di quell’età del mondo.

Tornando al Peteinosauro, anche se non siamo all 100% certi del suo aspetto e della sua collocazione nell’albero genealogico degli pterosauri, abbiamo almeno diversi indizi concreti sul suo stile di vita, grazie al luogo in cui è stato scoperto: la cava in cui fu scoperta contiene infatti rocce originatesi da sedimenti di origine fluviale o marina, e sono ricche anche di fossili di insetti, pesci e piccoli crostacei. Questo indizio, unito alla dentatura dell’animale, composta da piccoli denti conici, ci lascia capire chiaramente che il Peteinosauro prediligesse vivere vicino all’acqua, lungo le coste, le paludi o gli estuari fluviali, e che si nutrisse principalmente di insetti e piccoli animali che catturava in volo grazie alla sua abilità allora ineguagliata nello spostarsi in aria. Restare vicini all’acqua era una necessità anche per diverse altre ragioni comunque, dato che questo piccolo pterosauro è vissuto circa 210 milioni di anni fa, in pieno periodo Triassico, un intervallo di tempo della storia del nostro pianeta dove la terraferma era eccezionalmente arida e dove quindi era fondamentale vivere vicini a fonti d’acqua anche per cercare riparo nella vegetazione e contrastare l’escursione termica, oltre che per le più ovvie necessità fisiologiche. Il fatto di vivere in un habitat tanto inospitale probabilmente spiega anche il perché gli pterosauri fossero ricoperti di peluria, per meglio isolarsi dall’ambiente esterno nei momenti più caldi e più freddi della giornata.

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L’Elasmoterio

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Prima della fine dell’ultima era glaciale il mondo era popolato da giganti: certo, i dinosauri erano spariti già da un pezzo, ma grandi mammiferi che avevano ben poco da invidiare loro erano diffusi su tutto il globo, sia predatori che prede. Luoghi remoti e gelidi come le Alpi e la Russia potevano vantare popolazioni di leoni, iene e di grandi erbivori che oggi sopravvivono solo a latitudini tropicali o equatoriali, e spesso si trattava di varietà più grandi e robuste di quelle a noi familiari, adatte a vivere in climi freddi ed impervi. Come l’Elasmoterio (Elasmotherium), un immenso rinoceronte vissuto in Asia, e protagonista dell’articolo di oggi.

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I resti fossili di Elasmoterio confermano la sua esistenza in un lasso di tempo compreso fra i due milioni e mezzo ed i cinquantamila anni fa, sebbene alcuni storici abbiano scoperto indizi e leggende in giro per l’Asia che potrebbero indicare che piccole popolazioni di questo grande erbivoro sia sopravvissute fino a tempi storici o proto-storici: l’aspetto generale dell’Elasmoterio era quello tipico del rinoceronte, ma presentava anche diverse caratteristiche anatomiche non presenti nelle specie di questa famiglia ancora esistenti. Innanzitutto la dentatura: l’Elasmoterio viveva nelle steppe e nelle taighe e si ritiene che sopravvivesse principalmente grazie ad una dieta a base di erba e vegetazione a fusto basso, ragion per cui aveva sviluppato una dentatura simile a quella dei cavalli, con incisivi anteriori molto sviluppati e canini atrofizzatisi fino a scomparire, una teoria  ulteriormente rafforzata anche dalla struttura delle zampe, più lunghe ed adatte a spostamenti su lunga distanza rispetto alla media dei rinoceronti, ma molto simili a quanto si vede in animali che passano la vita in movimento alla ricerca di vegetazione da brucare.

In termini di dimensioni l’Elasmoterio era davvero impressionante, con una lunghezza massima di circa sei metri, un’altezza al garrese (ossia alla spalla) di due o più, ed un peso stimato di circa cinque tonnellate: per capirci, era grande quasi quanto il celeberrimo Mammuth Lanoso. E parlando di pelo, quasi certamente a differenza dei rinoceronti attuali l’Elasmoterio era coperto da uno strato di spessa peluria che lo aiutava ad isolarsi dal freddo durante i gelidi inverni dell’Era Glaciale, e di uno spesso strato di grasso che fungeva da isolante termico aggiuntivo.

Naturalmente, un rinoceronte di tali dimensioni aveva un apparato offensivo-difensivo in proporzione: nel cranio dell’Elasmoterio è presente un grande “bulbo” osseo che fungeva da punto di appoggio ad un enorme corno di cheratina che, essendo interte e separato dal cranio poteva certamente essere usato come arma sia per difendersi dai predatori, come gli enormi leoni della steppa grandi anche il doppio dei leoni africani contemporanei, e in combattimenti rituali con altri membri della specie. Siccome la cheratina però non fossilizza facilmente non siamo sicuri della forma del corno, magrado la sua presenza sia cosa quasi certa. In ogni caso, l’Elasmoterio era probabilmente dotato di uno dei corni più grandi in possesso di un erbivoro dall’estinzione dei dinosauri Ceratopsidi. Tuttavia, l’Elasmoterio non era il rinoceronte più grande mai vissuto: l’Indricoterio, vissuto circa 30 milioni di anni fa sempre in asia, era grande quasi il doppio, ma privo di corna, quindi almeno quel record rimane in mano a questo gigantesto erbivoro glaciale.

Come molti grandi animali dell’epoca, l’estinzione dell’Elasmoterio è da imputare alla riduzione del suo habitat causato dal cambiamento climatico che ha posto fine all’ultima Era Glaciale: probabilmente, invece, non ha mai rappresentato  una preda così tanto ambita da attirare regolarmente le attenzioni dei nostri antenati cacciatori, e non ci sono prove concrete a sostengno della possibilità che sia stato ridotto sull’orlo dell’estinzione dai primi uomini.

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Slimonia

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Spesso il nome o l’aspetto di un animale può ingannarci, specialmente quando possiamo vederlo solo in forma di fossile: la storia del nostro pianeta è talmente lunga e ricca di ogni tipo di creatura che spesso ci imbattiamo in esseri viventi che ce ne ricordano altri, pur avendo poco o niente un comune con essi a parte una superficiale somiglianza. E’ il caso ad esempio dei Euripteridi, i cosiddetti “scorpioni di mare”, che malgrado il nome e l’aspetto non erano antenati diretti degli scorpioni e spesso non vivevano nemmeno in acque salate. E’ il caso ad esempio della Slimonia, uno dei rappresentati più grandi della famiglia.

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Gli Euripteridi erano una famiglia di Artropodi predatori acquatica molto, molto antica: i primi segni della loro presenza risalgono a rocce della fine del Cambriano, quindi  qualcosa come 500-490 milioni di anni fa, e si ritiene possibile che sia stata in parte la concorrenza con loro a spingere all’estinzione varietà più antiche di invetebrati predatori quali l’Anomalocaris, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Gli Euripteridi erano predatori da fondale, che prediligevano le acque calme e poco profonde: con il passare del tempo l’aumento dei livelli di salinità nell’acqua marina e la competizione con i molluschi ed i primi pesci predatori li ha spinti a risalire i fiumi degli antichi continenti ed a vivere quasi unicamente in acque dolci.

La Slimonia, vissuta in Europa circa 400 milioni di anni fa durante il periodo Siluriano, era una delle varietà di Euripteridi che si era evoluta per vivere in un habitat unicamente di acqua dolce: se ne conoscono al momento 3 specie, e la varietà più grande era lunga quasi due metri; le dimensioni e l’anatomia lasciano pensare che possa essere l’antenato del più famoso Pterygotus, lo “scorpione di mare” più grande attualmente noto alla scienza, comparso poco dopo. Come quasi tutti i membri della famiglia degli Euripteridi Slimonia aveva un corpo piatto e segmentato, con una grossa testa squadrata ed occhi compositi.

I suoi chelicheri (le “mandiboline” esterne presenti in gran parte degli artropodi) erano sovrasviluppate al punto da formare vere e proprie chele, che contribuivano a renderlo più simile ad un vero e proprio scorpione, la parte terminale corpo invece, il cosiddetto telson, era a forma di spatola ed aveva un aculeo al centro. Ignoriamo se fosse o meno velenoso. In termini di locomozione, era dotato di tre paia di zampe simili a quelle dei crostacei, più una coppia di penducoli appiattiti in cima, che probabilmente fungevano da stabilizzatori o da timoni quando l’animale nuotava attivamente anziché muoversi nei fondali. Era indubbiamente un predatore, e probabilmente passava gran parte della sua vita nascosto sotto i fondali sabbiosi, tendendo agguati ai pesci corazzati che vivevano nei fiumi e nei laghi dell’epoca.

Sebbene ci sia ancora chi sostiene che gli Euripteridi siano gli antenati degli Aracnidi, sembra più probabile che i loro parenti più prossimi ancora in vita siano i limuli, curiosi artropodi racchiusi in guscio emisferico, che vivono lungo le coste del Nord America. I limuli sono in grado di camminare e sopravvivere fuori dall’acqua per brevi periodi, ed è possibile che fosse lo stesso per Euripteridi: poter cercare nuove distese d’acqua in cui stabilirsi in caso di siccittà o sovraffollamento sarebbe stato di certo un grande vantaggio per la sopravvivenza dei membri di questa famiglia. Considerate le dimensioni però, è improbabile che gli esemplari adulti di Slimonia fossero in grado di compiere simili viaggi… è però possibile che ne fossero capaci quando giovani e più piccoli, per evitare di restare nel territorio dei genitori e di dover competere con loro.

L’estinzione degli Euripteridi, come di moltissimi altri animali, avvenne alla fine del Permiano, a causa della formazione della Pangea, che causò la scomparsa di molti bacini di acqua dolce e sconvolse anche gli equilibri della vita marina.

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Tanistrofeo

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Dopo la grande estinzione che ha segnato la fine del Permiano e l’inizio del Triassico (circa 251 milioni di anni fa) spazzò via la stragrande maggioranza della vita animale sul pianeta, le poche specie superstiti si ritrovarono a dover sopravvivere in un habitat estramemente ostile, ma con così pochi competitori da potersi diffondere e diversificare in maniera rapida e capillare, ancor più di quanto accadrà poi con i mammiferi dopo l’estinzione dei dinosauri.

All’inizio del Triassico quindi la vita animale sul nostro pianeta era in uno stato di transizione, ed era possibile imbattersi in tutta una serie di… quantomeno insolite specie, che difficilmente si sarebbero evolute in un ambiente con una buona biodiversità ed equilibri naturali più “normali”. Fra di esse c’era un curioso rettile semi-acquatico: il Tanistrofeo.

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Già allora i rettili in grado di vivere in acqua non erano una novità: i più antichi risalgono al Permiano (Mesosaurus) e ce ne sono ancora persino ai giorni nostri, ma il Tanistrofeo era davvero peculiare. Innanzitutto, non siamo nemmeno sicuri che fosse un animale acquatico, o semi-acquatico, a causa della sua anatomia.

Il corpo leggero ed affusolato, unito al collo serpentino che da solo costituiva più della metà della lunghezza dell’animale (gli esemplari più grandi erano lunghi circa 3 metri), ci fanno pensare subito ad una creatura acquatica, che usava la parte anteriore del corpo come una fiocina, per fendere i banchi di pesci di sorpresa, prima che potessero rilevare il rumore e le vibrazioni prodotte dal suo corpo durante il nuoto: aveva anche un paio di corte ma robuste zampe posteriori con cui poteva sicuramente produrre una certa spinta, però ci sono due elementi fondamentali nella sua struttura corporea che hanno portato gli scienziati a formulare teorie più fantasiosi attorno al Tanistrofeo.

Innanzitutto la coda, che era l’esatto contrario del collo, corta e costituita da ossa piccole e con poca possibilità di attaccature per i muscoli nessari al nuoto, e poi soprattutto, il già citato collo: in realtà non era affatto serpentino dato che, invece di essere costituito da un gran numero di vertebre, come appunto nei serpenti o nei plesiosauri, era formato da un totale di solo una decina di vertebre cervicali, allungate a dismisura. Questo significava ovviamente che era un’apparato muscolo-scheletrico estremamente rigido, più simile alla struttura di una canna da pesca che non ad un qualcosa che consentisse all’animale di muoversi agilmente in acqua e di inseguire prede vive.

Questo ha portato alla formulazione di due teorie principali: quella che il Tanistrofeo fosse, appunto, una sorta di “canna da pesca vivente” che passava le giornate appostato sulle coste o sulle rive di specchi d’acqua, pronto a ghermire in modo rapido e silenzioso i pesci che si avvicinassero alla superficie dell’acqua nei pressi della sua piccola testa irta di denti, e quella che non fosse affatto un animale acquatico, ma un insettivoro , che restava in agguato fra la vegetazione a fusto sottile con il collo ben ritto ad angolo quasi retto, pronto ad addentare qualsiasi cosa volasse vicino alla sua bocca.

Questa seconda teoria è avvalorata anche dal fatto che i fossili di alcuni degli esemplari più grandi avessero una dentatura più “semplificata”, poco adatta alla cattura dei pesci. In ogni caso, pare improbabile che un animale come questo passasse molto tempo in movimento: quali che fossero il suo habitat e le sue prede, riusciva ad avere la meglio su di loro solo grazie a lunghi appostamenti, e non inseguendole attivamente. La sua anatomia non glielo avrebbe permesso.

Il Tanistrofeo è stato trovato in varie parti d’Europa, Italia compresa, ed in alcuni territori di Africa, Medio Oriente e Cina: grazie alla presenza di un unico continente durante il Triassico ed alla presenza di pochi predatori almeno per un certo tempo fu un animale molto diffuso e di successo. Probabilmente la sua estinzione è da imputare alla competizione con i dinosauri o con i rettili marini, a seconda di qualche fosse il suo habitat d’appartenenza.

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Minmi, il primo unico dinosauro corazzato scoperto in Australia

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Questa settimana torniamo in Australia, ma con un animale molto più antico del leone marsupiale: parleremo infatti del Minmi, il primo e per ora unico dinosauro corazzato scoperto in tale sub-continente.

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Generalmente, i membri della famiglia del Minmi, gli Anchilosauridi, avevano una taglia media che oscillava fra quella dell’ippopotamo e dell’elefante, e vengono classificati in due sottogruppi, i più celebri Ankylosauridi, dotati di una corazza integrale e della famigerata “mazza” di tessuto ossificato alla fine della coda, ed i Nodosauridi privi della mazza e coperti da difese più “leggere”. Il Mimni invece, era notevolmente più piccolo, e gli studi più recenti sembrano indicare che sia un Anchilosauride basale, ossia che si trattasse di una specie che precede la divisione della famiglia in due gruppi separati, e che presenta un misto di caratteri di entrambe, ed altri elementi che lo rendono chiaramente più primitivo rispetto ai suoi cugini più grossi.

Una delle caratteristiche che ci fanno subito capire che questo animale non era ancora specializzato quanto gli Anchilosauridi successivi sono le zampe: mentre di solito negli animali di questa famiglia sono tozze e “pensate” solo per sostenere il grande peso del corpo, nel Minmi erano invece relativamente slanciate. Le impronte lasciate sulle ossa fossili dalle attaccature dei muscoli ci fanno pensare che questi ultimi fossero ben sviluppati, e che l’animale fosse, almeno sulle brevi distanze, un più che discreto corridore. La corazza vera e propria era limitata ad una serie di grossi noduli e spuntoni osseri situati sul dorso, sul collo e sulla coda, alla maniera dei Nodosauridi, mentre la testa aveva una forma che ricordava più quella degli Ankilosauridi, sebbene priva del livello di protezioni ossee riscontrate in quel gruppo. A differenza degli erbivori corazzati successivi inoltre, le cui difese erano concentrate sul dorso e sulla coda, Minmi aveva delle protezioni aggiuntive anche nel ventre.

Originariamente conoscevamo solo pochissimi resti ossei estremamente frammentari di Minmi, ritrovati appunto a Minmi Crossing, nella regione del Queensland, ma in anni recenti è stato rinvenuto un secondo esemplare, in uno stato di conservazione molto migliore, che ci ha permesso di conoscere più a fondo la specie, persino al punto di scoprire di cosa si nutriva, dato che nel nuovo esemplare erano presenti resti fossilizzati degli organi interni e persino dell’ultimo pasto dell’animale. Essenzialmente Minmi, e probabilmente gli Anchilosauridi in generale, mangiavano qualsiasi cosa fosse a portata di bocca per loro: nella cavità toracica c’erano infatti resti di semi e frutti, così come di vari tipi di fogliame. Non c’erano invece i gastroliti, ossia i sassolini che erbivori come gli Stegosauri o i Sauropodi ingoiavano per “masticare” il cibo nello stomaco, questo perché  il Minmi era dotato di una dentatura di tutto rispetto e sminuzzava a dovere il proprio pasto prima di ingoiarlo.

Come già accennato, il Minmi era insolitamente piccolo per essere un Anchilosauride: il nuovo fossile appartiene ad un esemplare alto un metro e lungo appena tre, con un massa corporea totale paragonabile a quella di un pony, ed i frammenti trovati in precedenza potrebbero essere stati di un individuo anche più piccolo. Non è chiaro se la taglia ridotta sia dovuta al fatto che questo dinosauro fosse un membro primitivo della sua famiglia: all’epoca in cui visse, circa 130 milioni di anni fa, il Queensland australiano era infatti semi-sommerso dal mare, analogamente a quanto accadeva in Europa, e potrebbe quindi anche trattarsi anche in questo caso di nanismo insulare. Solo quando e se verranno trovati nuovi fossili della specie in altri territori, sarà possibile chiarire la questione.

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L’Entelodonte, uno spaventoso antenato dei maiali

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Una delle storie più famose della mitologia greca è quella che racconta delle Dodici Fatiche affrontate dal possente Ercole, molte delle quali consistevano nel cacciare ed abbattere feroci creature mitologiche, fra cui anche il gigantesco Cinghiale di Erimanto. Se una simile bestia fosse realmente esistita, probabilmente sarebbe stata molto simile alla creatura di cui parleremo oggi, lo spaventoso suino carnivoro Entelodonte.

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Vissuto in Europa, Africa e forse in Cina circa 30 milioni di anni, l’Entelodonte era simile ai moderni facoceri, ma grande e pesante quasi quanto un orso grizzly: non era propriamente un Suino, ma un Suiforme, quindi in realtà più imparentato con gli antenati di maiali e facoceri, che direttamente con loro. Le differenze più significative a livello anatomico erano nelle zampe, le cui ossa erano pressoché fuse in un’unica struttura più rigida, ma al tempo stesso anche più robusta naturalmente, e nelle vertebre, che presentevano allungamenti simili a quelli riscontrate in alcune tipologie di bovini e che, come in questi ultimi, molto probabilmente fungevano da struttura di sostengno per una gobba di materiale adiposo (grasso) che fungeva da riserva di calorie nei periodi di magra.

Anche le zampe presentevano differenze, dato che erano dotate di un solo grande paio di dita con zoccoli, mentre le due piccole dita laterali presenti nei Suini moderni si erano atrofizzate fino a scomparire del tutto. Per il resto la corporatura dell’animale era piuttosto simile a quella di un grosso cinghiale.

L’arma numero uno dell’Entelodonte era ovviamente la sua grande testa: lunga più di sessanta centimetri, e posizinata alla fine di un collo tozzo e muscoloso, con grandi zigomi sporgenti. Il muso potrebbe aver ospitato un grugno simile a quello dei maiali,  ma essendo una struttura formata da tessuti molli non ne abbiamo tracce nei fossili e quindi non c’è modo di saperlo con certezza.

La bocca presentava alcune similitudini strutturali con mammiferi predatori quali i Felidi, che ci dicono che l’animale avrebbe potuto spalancarla sufficentemente da ingoiare grosse porzioni di cibo, o infliggere morsi poderosi. E riguardo a questo, l’Entelodonte possedeva una dentatuta completa, suddivisa in incisivi, canini, molari e premolari, come nell’uomo. Non posseveda zanne ricurve come nei Suidi veri e propri, ma aveva canini molto grandi e prominenti che erano indubbiamente un buon strumento sia di difesa che di offesa.

E’ facile immaginare che una simile creatura fosse prevalentemente un predatore, ma la struttura delle zampe ci dice che l’Entelodonte non era un buon corridore, e che avrebbe potuto lanciarsi solo in brevi “scatti” e non in veri e propri inseguimenti. Un bell’handicap per un cacciatore attivo. Anche se non è inverosimile pensare che prediligesse nutrirsi di carne era probabilmente un onnivoro, e si procurava proteine animali nutrendosi di carogne, dandosi alla caccia di prede vive solo in caso di necessità, o magari quando le migrazioni stagionali dei grandi erbivori portavano nel suo territorio una sovrabbondanza di prede, migliorando le sua chance di successo di abbattere una preda.

Non possiamo dire granché del suo comportamento studiandone solo gli scheletri, ma è ragionevole supporre che vivesse da solo, o in piccoli gruppi familiari e che fosse un animale molto territoriale: le sue zanne avrebbero potuto essere un ottimo deterrente visivo durante dispute con potenziali rivali, come accade ad esempio negli ippopotami, che sono a loro volta discendenti dai Suiformi, e che fanno bella mostra della loro dentatura per scoraggiare i concorrenti prima di ricorrere a scontri più diretti e cruenti.

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Pelagornis, un “gigante dei cieli” vissuto 28 ed i 25 milioni di anni fa

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Anche se gli pterosauri, almeno per il momento, mantengono il record quando si tratta di determinare quale sia stato il più grande Vertebrato volante, gli uccelli sono comunque dei buoni “secondi classificati” e ne conosciamo alcune varietà davvero enormi: ad esempio il Pelagornis.

I resti di questo volatile piumato risalgono ad un periodo che va fra i 28 ed i 25 milioni di anni fa, e gli studiosi ne riconoscono al momento quattro specie, rivenute in varie parti del mondo, sebbene i resti più completi, nonché i primi ad essere scoperti, provengano dalla Carolina del Sud, negli USA. Anche le stime più modeste indicano che questo animale avesse un’apertura alare complessiva di almeno 5 metri, 5 metri e mezzo, mentre quelle più “esagerate” ritraggono una creatura con ali di 7 metri, arrivando quindi alla taglia di rettili volanti come il famoso Pteranodon, e ne farebbero il più grande uccello attualmente noto, con solo alcune varietà di avvoltoi in grado di rivaleggiare con questa specie in termini di dimensioni.

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Il Pelagornis era un uccello marino, ed è ragionevole supporre che conducesse uno stile di vita analogo a quello del pellicano o dell’albatros, pur essendo grande almeno il doppio di qualsiasi uccello marino oggi esistente. Per mantenersi in salute ed in grado di volare doveva necessariamente ingurgitare grandi quantità di cibo, ed in questo era facilitato dal suo becco, dotato di denti, o meglio di pseudo-denti. A differenza di quanto osservato in uccelli marini più antichi, come l’Hesperornis di cui abbiamo parlato in precedenza, il Pelagornis non aveva veri e propri denti, ma il suo becco era coperto di dentellature, in un certo senso simili a quelle di una sega o di un pettine, disposti in formazione “ad incastro”, una conformazione tipicamente osservata in molte specie che si nutrono di pesce o altri animali viscidi e sfuggenti, che rimanevano infilzati, ed impossibilitati a fuggire. Visto che anatomicamente questo grande uccello preistorico ha caratteristiche in comune sia con gli albatros che con i gabbiani è inoltre possibile che avesse, come questi ultimi, una sacca golare in cui immagazzinare il pescato, in modo da non dover ritornare a terra dopo ogni cattura.

Fra i luoghi al di fuori dell’America in cui sono stati trovati resti di Pelagornis si va dal  Portogalo, al Marocco fino a persino la Nuova Zelanda, sebbene alcuni paleontologi ritengono che i fossili neozelandesi appartengano più a dei parenti prossimi di questa specie: la sua notevole apertura alare consentiva a questo volatile di spostarsi per distanze enormi e di raggiungere quasi ogni angolo del globo dove ci fossero le condizioni ideali per la sua sopravvivenza. E’ molto probabile, sebbene non ci sia modo di saperlo con certezza, che si trattasse di animali nomadi, che si spostavano tutto l’anno inseguendo i pesci di cui si nutrivano in una perenne migrazione, o persino che fossero vagabondi dei cieli, senza una rotta prestabilita. In ogni caso, è palese che una creatura così specializzata passasse buona parte della sua vita in volo, e viste le sue dimensioni doveva essere primariamente un planatore, utilizzando una forma di volo “attivo”, ossia sbattendo le ali, solo quando doveva spostarsi rapidamente per catturare pesci, o sfuggire a predatori o rivali della stessa specie.

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Seymouria, un gigantesco anfibio vissuto nel Permiano

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Il mondo durante il Permiano non era esattamente un posto piacevole: circa 270 milioni di anni fa l’inaridimento dei territori emersi che avrebbe portato alla più catastrofica estinzione di massa mai avvenuta era già iniziato, e le immense foreste paludose caratteristiche del precedente periodo Carbonifero stavano sparendo rapidamente, lasciando un gran numero di animali senza un habitat in cui prosperare. L’inarrestabile forza della selezione naturale però ha anche fatto sì che i sopravvissuti con il passare delle generazioni riuscissero ad adattarsi ai nuovi scenari. Il Seymouria è uno degli esempi più emblematici di quanto stava succedendo in questo mondo in trasformazione.

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A prima vista il Seymouria era uno dei tanti “lucertoloni” che ancora oggi vivono in ambienti aridi, ed in effetti persino i paleontologi originariamente lo avevano classificato come tale, ma in realtà si tratta di un anfibio, un Labirintodonte, la cui evoluzione lo ha portato ad imitare talmente bene i rettili che per lungo tempo è stato indicato, erroneamente, come il possibile anello mancante fra le due Classi.

Lungo poco più di mezzo metro, questo curioso “rettile finto” era tutto ciò che i primi anfibi non erano ancora stati in grado di essere: la sua colonna vertebrale era robusta ma flessibile, così come le ossa delle zampe, ora completamente articolate, e sostenute da un bacino e da scapole perfettamente formate.

Come ulteriore conferma del fatto che Seymouria non fosse un animale acquatico, la coda dell’animale era invece corta e non presentava appiattimenti o prolungamenti delle vertebre che avrebbero dovuto esserci per sostenere una pseudo-pinna caudale. La testa piatta ed a forma di pala era uno dei pochi elementi dello scheletro che tradiscono la vera natura di questa specie ed hanno spinto gli studiosi a riclassificarlo come anfibio.

Non abbiamo impronte della pelle di Seymouria, ma è ragionevole ipotizzare che anch’essa fosse simile a quella dei rettili, dato che non avrebbe molto senso che una creatura così adattatasi alla vita fuori dall’acqua a livello scheletrico abbia avuto invece ancora una pelle porosa e permeabile da anfibio. Le orbite oculari e nasali relativamente ampie hanno inoltre portato gli studiosi a speculare anche sul fatto che l’animale avesse delle ghiandole lacrimali specializzate, per espellere l’eccesso di sali minerali, come in molti rettili (le famose “lacrime di coccodrillo”) per supplire all’incapacità della pelle di trasudare tali sostanza di scarto in modo efficente. Nei vari reperti fossili inoltre (abbiamo molti fossili di Seymouria, alcuni in ottimo stato di conservazione) si è notato che alcuni presentano una calotta cranica più spessa: è possibile che si trattasse dei maschi, o comunque di esemplari del sesso dominante, e che questa curiosa caratteristica indichi che i vari individui risolvessero dispute per il territorio o le femmine prendendosi a testate, o spintonandosi testa contro testa, come fanno oggi alcuni ovini.

Il Seymouria era un piccolo predatore, la cui dieta comprendeva insetti, uova e piccoli animali. Essenzialmente era un opportunista, che ingurgitava qualsiasi cosa di commestibile gli capitasse a tiro; era un animale ben adattato al suo ambiente, ma conservava almeno una delle maggiori vulnerabilità degli anfibi: poteva riprodursi solo in un ambiente acquatico. Malgrado gli adulti fossero quindi in grado di vivere sulla terraferma, non potevano comunque allontanarsi a lungo da fonti d’acqua importanti se volevano preservare la specie. Un “difetto di progettazione” che ha eventualmente portato la specie all’estinzione.

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Pangea Post – Speciale di fine anno!

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Salve a tutti di nuovo dal vostro (si spera ormai!) paleo-blogger di fiducia! Volevo solo cogliere l’occasione per salutare i miei lettori, se ce ne sono (scherzo!), ed augurare a loro ed a tutta la redazione di Gaianews.it un buon Natale ed un felice anno nuovo. Inoltre ho il piacere di informarvi che Pangea Post continuerà anche nel 2015, quindi per   festeggiare e per chiudere l’anno in bellezza, ecco a voi un articolo formato gigante… di nuovo Buone Feste a grazie a tutti per l’attenzione! -AM-

Abbiamo parlato già alcune volte di animali prestorici, ed in particolare di dinosauri, ricostruiti erroneamente a causa degli scarsi reperti fossili: si tratta di una pratica vecchia quasi di 200, ossia da quando i primi dinosauri sono stati ufficialmente scoperti e classificati in Inghilterra verso la metà dell ‘800, e ricostruiti come strani quadrupedi più simili a chimere mitologiche che ad animali reali. Si tratta quasi sempre di errori commessi dai paleontologi in buona fede, ma che a volte costringono studiosi ed appassionati ad abbandonare l’immagine che si erano fatti di questa o quella specie perché ormai obsoleta: spesso però si tratta di uno scambio più che equo, dato che se c’è una cosa che abbiamo imparato dai fossili è che la natura è più sorprendente di qualsiasi cosa possiamo immaginare noi stessi. E nel 2014 non una ma ben due creature preistoriche molto note agli appassionati di dinosauri ed animali preistorici hanno subito questo sorprendente “cambio di immagine”.

La prima è il grande erbivoro/onnivoro Deinocheiurs, o Deinocherio, che ha costituito per decenni uno dei più grandi misteri paleontologici in fatto di dinosauri: il suo nome significa “mani terribili”, questo perché il primo, e per decenni unico, ritrovamento fossile relativo a questa specie sono state una paio di zampe anteriori di proporzioni davvero enormi, culminanti in grandi artigli ricurvi. La fantasia di scienziati ed artisti ha iniziato a galoppare immediatamente all’annuncio di questa scoperta, con le teorie più popolari che vedevano il Deinocherio come un gigantesco predatore che dilaniava le prede con gli enormi artigli, o come un “dinosauro-struzzo” (una varietà di cui in Pangea Post non abbiamo ancora parlato) che per qualche ragione aveva raggiunto proporzioni enormi. Altre ipotesi lo vedevano come una creature meno inquietante, che conduceva uno stili di vita simile a quello di un bradipo o di un formichiere: quest’ultima branca di supposizioni iniziò a ricevere conferme indirette con la scoperta dei Therizinosauridi, come il Notronico (*link al post*) che pure erano dotati di lunghe braccia dai grandi artigli ma erano dinosauri carnivori divenuti innocui erbivori: tuttavia negli anni sono stati scoperti anche “dinosauri struzzo” di dimensioni paragonabili a quelle del Tirannosauro, come il Gigantoraptor, quindi il dubbio sulle parentele del Deinocherio rimaneva. Fino a pochissimo tempo fa.

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Il grande erbivoro/onnivoro Deinocheiurs, o Deinocherio

Un nuovo studio, i cui risultati sono stati pubblicati su riviste del calibro di Nature e National Geographic, e basato su nuovi reperti notevolmente completi hanno dimostrato che nessuna delle precedenti ipotesi era completamente esatta: il Deinocherio infatti presentava diverse somiglianze con i Therizinosauridi, ma era decisamente un Ornitomimide (un “dinosauro struzzo” appunto) seppur di dimensioni eccezionali. Era un animale enorme, toccando e forse superando i dieci metri di lunghezza ed un peso di diverse tonnellate, e la sua anatomia presenta una serie di adattamenti che indicano chiaramente che conducesse uno stile di vita da erbivoro, o onnivoro opportunista. Degli Ornitomimidi conserva il lungo collo e la testa affusolata e dotata di un becco corneo privo di denti, ma a differenza dei suoi “parenti” più piccoli era una creatura lenta, forse persino impacciata, con un grande ventre atto ad ospitare un apparato digerente da erbivoro, ed una gobba simile a quella dei bisonti, come si evince dalla presenza di vertebre con prolungamenti appiattiti, costituita da muscoli e grasso. Essendo un Ornitomimide inoltre era quasi certamente coperto in buona parte di penne e piume. I grandi artigli delle zampe anteriori, che tanto a lungo hanno affascinato i paleontologi servivano molto probabilmente più per aiutarlo a procacciarsi cibo come foglie e corteccia, che a ghermire prede vive, sebbene è possibile che un animale tanto grande si nutrisse anche di carne occasionalmente, e solo in casi estremi per la difesa o l’offesa. Fu inoltre uno degli ultimi dinosauri, essendo vissuto fra i 70 ed i 65 milioni di anni fa, in Asia, e fu uno dei testimoni della grande estinzione K-T.

L’altro “caro estinto” ad aver subito un restyling radicale quest’anno è il ben più famoso Spinosauro: la fama di questo carnivoro fra il grande pubblico è esplosa nel 2001, quando una versione decisamente esagerata dell’animale fa il suo debutto cinematografico nel film Jurassic Park III, dove riesce persino ad abbattere uno degli iconici T-Rex della saga. In realtà lo Spinosauro all’epoca era noto solo grazie a pochissimi frammenti: degli unici suoi resti in stato decente ci era rimasta solo qualche foto, dato che gli originali andarono distrutti in un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale. Per molto tempo le ricostruzioni di Spinosauro sono state basate sull’anatomia dei suoi parenti più prossimi, come il Suchomimus o il Baryonix, dinosauri carnivori a dir poco peculiari, con lunghi musi simili a quelli del coccodrillo e zampe anteriori insolitamente sviluppate e dotate di lunghi artigli falciformi. Caratteri che hanno spinto molti studiosi ad ipotizzare che gli Spinosauridi conducessero uno stile di vita semi-acquatico, nutrendosi di pesce, piuttosto che cacciare sulla terraferma. Ma l’immagine dello Spinosauro come nuovo “re dei dinosauri” si era già radicata nell’immaginario popolare, grazie ad un film non proprio eccelso e ad alcune stime probabilmente esagerate, che lo vedevano notevolmente più grande e massiccio del Tirannosauro.

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L’altro “caro estinto” ad aver subito un restyling radicale quest’anno è il ben più famoso Spinosauro

Dal 2001 ad oggi molto è cambiato: abbiamo rinvenuto prima diversi frammenti fossili di nuovi esemplari, fra cui la “punta del muso” di un individuo adulto attualmente conservata ed esposta al Museo di Storia Naturale di Milano, ed altri elementi che hanno iniziato a suggerire che la natura di questo dinosauro predatore fosse un qualcosa di ancora mai visto : in particolare, le nuove ricostruzioni vedevano come un animale dal tronco allungato e dal baricentro notevolmente basso. Ed oggi sappiamo il perchè.

Quest’anno nuovi studi, basati su resti fossili molto più completi, ci hanno mostrato un ritratto inedito dello Spinosauro: le sue zampe posteriori erano infatti molto corte, cosa che unita alle robuste zampe anteriori ed all’addome allungato ci indicano che il nuovo “pretendente” al trono di re dei dinosauri passava la maggior parte della sua vita su quattro zampe… o perlomeno, la parte della sua vita che trascorreva sulla terraferma. Vari indizi, fra cui alcune tracce di origine chimica, trovate nei nuovi reperti e nelle rocce in cui erano inglobati ci confermano infatti che lo Spinosauro era un animale dalle abitudini anfibie, che passava molto tempo in acqua, dando la caccia a pesci (in particolare abbiamo alcuni fossili di pesci sega giganti che presentano segni di morsi compatibili con la dentatura dello Spinosauro) e coccodrilli, abbondanti nei territori del Nord Africa di circa 100 milioni di anni fa che erano la sua casa. I nuovi fossili inoltre ci confermano che effettivamente si trattava di un animale che raggiungeva una lunghezza superiore a quella media riscontrata nel Tirannosauro, ma se si parla di massa corporea in genere e muscolare particolare il T-Rex rimane ancora imbattuto… almeno per ora. Non che sia in realtà poi così importante: questi due animali non si sono mai incontrati, vivendo in epoche e continenti diversi e con stili di vita radicalmente diversi, come è stato ulteriormente confermato quest’anno. Immaginare chi dei due sia il “migliore” è come cercare di capire chi vincerebbe in un duello fra Hulk e Superman: una fantasia divertente, ma inutile e priva di risposte serie o obiettive.

E su questa nota si chiude il primo anno di Pangea Post: ringrazio di nuovo tutti quelli che mi hanno seguito, e vi do appuntamento a Gennaio, con “nuove” bizzarre creature estinte.

Buone Feste e buon 2015!

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Besanosaurus: il pesce-rettile di Varese

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E rieccoci di nuovo qui, pronti ad iniziare un nuovo anno parlando di cose vecchie di milioni di anni! Quando questa rubrica è iniziata lo scorso anno, è stato presentando una specie preistorica “nostrana”, quindi inizieremo il 2015 nello stesso modo, però questa volta non si tratterà di un dinosauro, ma di un rettile vissuto nei nostri mari: il Besanosauro.

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Questo interessante animale è attualmente il rappresentante più antico della famiglia degli Ittiosauri noto alla scienza, oltre che uno dei rettili marini più grandi ritrovati in Italia: il fossile più completo in nostro possesso è stato ritrovato nei pressi di Varese, nella località di Monte San Giorgio, presso la frazione di Besano, da cui la specie prende il nome. Il reperto in questione appartiene ad una femmina adulta lunga quasi 6 metri, con un peso minimo stimato in vita di una mezza tonnellata, ed è in un eccellente stato di conservazione. Altri fossili più frammentari che potrebbero appartenere ad altri esemplari della specie sono tutt’ora in fase di studio.

Gli Ittiosauri (il nome letteralmente significa “pesce-rettile”) sono un vero e proprio equivalente rettiliano dei delfini: mentre altre varietà di rettili acquatici, come i Plesiosauri, hanno sviluppato forme ed anatomie comunque riconoscibili a colpo d’occhio come “rettiliane” gli Ittiosauri, così come i Cetacei, avevano forme molto, molto più simili a quelle dei pesci ossei, anche più dei Cetacei infatti, dato che, ad esempio, gli Ittiosauri erano dotati di una pinna caudale disposta in verticale come nei pesci, anziché orizzontale come in balene e delfini. Sono comparsi sulla Terra circa 250 milioni di anni fa, e sono scomparsi circa 150 milioni di anni dopo, in pieno periodo Cretaceo, in circostanze non ancora del tutto chiare.

Il Besanosauro, essendo uno dei rappresentanti più antichi della famiglia presenta vari caratteri primitivi, ma non così tanto da chiarirci del tutto l’origine di questa varietà di rettili marini, anche se ci fornisce comunque varie importanti informazioni sulla loro evoluzione. I caratteri primitivi più evidenti nella specie sono la testa ancora relativamente piccola e “separata” dal resto del corpo, la differenza di dimensioni fra le pinne anteriori e posteriori non ancora eccessivamente marcata (circa solo un 15% di differenza, quando in specie successive le pinne posteriori si sono atrofizzate fino quasi a scomparire) e la totale assenza di una pinna dorsale, sviluppatasi solo successivamente; anche la presenza di una pinna caudale completa è a dir poco dubbia. Tutte queste peculiarità messe insieme ci portano ad immaginare che il Besanosauro prediligesse vivere in acque calde e poco profonde, e che si nutrisse prevalentemente di animali da fondale, come vermi, molluschi e crostacei, più facili da inseguire, dato che non essendo ancora dotato di tutte le “attrezzature” per il nuoto in alto mare o a grandi velocità, come nei delfini, probabilmente si muoveva nell’acqua con moto serpeggiante, con modalità simili, per esempio, a quelle di una grande murena.

Abbiamo accennato al fatto che l’esemplare scoperto presso Monte San Giorgio fosse una femmina: per una volta possiamo stabilirlo con certezza, perché gli Ittiosauri erano ovovivipari, ossia le uova si schiudevano nel corpo delle madri, che partorivano piccoli vivi e già formati, adattamento che ha permesso agli Ittiosauri di slegarsi completamente dalla terraferma, diventando creature in grado di vivere permanentemente in mare. Malgrado fosse una specie molto antica, il Besanosauro già si riproduceva in questo modo e nel fossile completo in nostro possesso sono presenti ben quattro “feti” nel ventre dell’esemplare adulto, prova inconfutabile del fatto che lo scheletro appartenesse ad un esemplare di sesso femminile.

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Aepycamelus: il cammello allungato

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Oggigiorno l’unico grande erbivoro “collo-lungo” che possiamo incontrare di persona è la giraffa, tuttavia, come sempre, scavando nel passato del nostro pianeta possiamo trovare una gran quantità di animali al tempo stesso simili, e molto diversi a quelli a cui siamo abituati, parlando di “spilungoni” erbivori possiamo ad esempio citare l’Apicamelo, detto anche Alticamelo, un mammifero che, come dice il nome, era essenzialmente un cammello con il collo e le zampe allungati come quelli di una giraffa.

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Molto tempo fa i mammiferi della famiglia dei Camelidi erano molto più diffusi di quanto non siano oggi, ed era possibile imbattersi in essi anche in Nord America: l’Apicamelo era appunto uno dei rappresentanti americani della famiglia e ne sono stati ritrovati fossili in varie località degli Stati Uniti, fra cui in Montana ed in California. Esistette per un lasso di tempo piuttosto lungo per un grande erbivoro, da circa 20 a 5 milioni di anni fa, e scomparve probabilmente a causa dei cambiamenti climatici o della competizione con altre varietà di grandi mammiferi provenienti dal Sud America e dall’Asia. 

In media una Apicamelo adulto passava la maggior parte della sua vita con la testa proiettata alla bellezza di tre metri di altezza rispetto al suolo: l’anatomia del collo era più simile a quella dei cammelli che non a quella delle giraffe, ed era quindi relativamente flessibile, rendendo possibile incurvare o piegare il collo in una configurazione ad “s”, segno che questo animale doveva essere meno impacciato nei movimenti delle giraffe. Le lunghe zampe terminavano con grandi piedi ditigradi, dotati inoltre dello stesso tipo di cuscinetti carnosi che rendono più agevole ai cammelli contemporanei gli spostamenti su terreni sabbiosi o roventi. Nel caso dell’Apicamelo tali strutture probabilmente servivano per migliorare l’equilibrio e l’aderenza durante la corsa, dato che si pensa vivesse in ambienti verdeggianti, come praterie ed i limitari di boschi e foreste, dove poteva trovare cibo in abbondanza, e dove il suo lungo collo gli risultava particolarmente utile per nutrirsi di foglie e frutti direttamente dalle cime degli alberi.

Come i cammelli moderni, questo erbivoro era quasi certamente dotato di una gobba in cui si accumulavano riserve di grasso, ma anche con tale “scorta di emergenza”, doveva comunque passare gran parte della sua vita a nutrirsi ed è ragionevole pensare che compisse migrazioni stagionali, magari accodandosi a branchi di animali più numerosi, piuttosto che viaggiare da solo o in gruppi composti solo da membri della sua stessa specie, dato che fin’ora abbiamo sempre trovati fossili di esemplari isolati. Grazie alle sue lunghe zampe oltre dovevano essere in grado di sferrare calci poderosi, cosa che le rendeva un buono strumento di difesa, oltre che di locomozione: un qualcosa di cui certamente aveva bisogno nell’America preistorica, popolata sia da carnivori a noi familiari che da tutta una serie di predatori più… diciamo peculiari, che si sono poi estinti senza lasciare discendenti, come gli Anficioni e le famigerate tigri dai denti a sciabola.

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Il verme-rompicapo Hallucigenia

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Gli Invertebrati ci affascinano ed inquietano da sempre, forse a causa di qualche forma di memoria ancestrale, ereditata dai nostri antichi progenitori che vivevano nelle foreste e nei mari primordiali, e creature armate di molteplici zampe, pungiglioni o tentacoli gli davano la caccia incessantemente. Non tutti gli Invertebrati preistorici però, naturalmente, erano mostruosi predatori, tuttavia anche fra i rappresentanti più innocui della categoria non mancavano specie dalle fattezze inquietanti, o persino assurde, come l’animale di cui parleremo oggi, che è stato nominato molto appropriatamente Allucigenia.

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Allucigenia era un altro degli abitanti della località fossilifera nota come Burgess Shale, in Canada, come uno degli animali di cui abbiamo parlato in precedenza: l’Anomalocaris che era sicuramente un predatore potenziale di questo piccolo animale, lungo pochi centimetri e non particolarmente agile o ben protetto. La piccola taglia, ed il fatto che si tratti di un antichissimo invertebrato rendono l’Allucigenia un vero e proprio rompicapo, tanto che i paleontologi ancora non sono sicuri quali siano la testa o la coda di questa creatura, o persino di quale sia il suo ventre ed il suo dorso!

In generale, Allucigenia aveva un corpicino cilindrico, terminante alle estremità con un una sorta di bulbo, che potrebbe essere sia una testa che un addome, ed un prolungamento simile ad una piccola proboscide, che potrebbe essere sia la bocca che l’ano dell’animale. Dal corpo si protendevano due file di punte, forse aculei o zampe, e due di penducoli, forse tentacoli o antenne. Nel corso degli anni, il primo fossile di Allucigenia fu scoperto nel 1911, sono state avanzate ogni sorta di teoria sul funzionamento delle varie parti dell’animale e del perché suo aspetto bizzarro, compresa la possibilità che si trattasse in realtà di un frammento di qualche animale più grosso (ipotesi smentita dal ritrovamento di molteplici fossili e di altre specie affini), oggi l’ipotesi che va per la maggiore è che i tentacoli servissero per spingere l’animale lungo il fondale, e forse per raccogliere cibo (vista la natura vermiforme e la piccola taglia Allucigenia era quasi certamente uno spazzino o un detritivoro), mente le appendici più rigide e simili ad aculei fungevano da difesa passiva. Non è ancora chiaro quali delle due estremità della creatura fosse la testa, invece, e comunque in generale il dibattito attorno a questa minuscola curiosità della preistoria continua a tutto tondo.

Allucigenia visse circa 500 milioni di anni fa, durante quella che viene definita la prima grande “fioritura” della vita: dopo quasi un miliardo di anni di lenta evoluzione la vita aveva conquistato la capacità di esistere in forme multicellulari e con un intero pianeta da colonizzare, nel giro di pochi milioni di anni arrivarono a formarsi le prime grandi comunità di organismi marini, le quali avevano ben poco da invidiare a quelle visibili nelle grandi barriere coralline dei giorni nostri, se non il fatto di essere costituite unicamente da invertebrati e proto-vertebrati estremamente semplici, ed il fatto che quasi nessua forma di vita all’epoca superasse il metro di lunghezza. Allucigenia era solo un minuscolo pezzo di quell’incredibile puzzle di nuove specie, letteralmente, eppure non si può fare a meno di essere affascinati al pensiero di un qualcosa di tanto antico e dall’aspetto tanto alieno.

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Lambeosaurus: uno degli ultimi giganti erbivori

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I dinosauri dal becco d’anatra, gli Adrosauri, raramente attraggono le attenzioni del pubblico nei film o nei documentari, essendo raffigurati perlopiù come un equivalente dei bovini o delle gazzelle: le poche volte che se ne vedono è solo per cadere immancabilmente vittime dei grandi predatori, o come “comparse” sullo sfondo, rispetto ai più celebri e spettacolari dinosauri cornuti. Ma ovviamente anche gli Adrosauri erano creature affascinanti, ed in alcuni casi persino maestose: il Lambeosauro è uno dei migliori esempi.

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Vissuto verso alla fine del periodo Cretaceo, circa fra i 75 ed i 65 milioni di anni fa , il Lambeosauro era un enorme erbivoro, lungo anche più di 15 metri e dal peso medio stimato attorno alle 6 tonnellate: insomma poteva superare del famigerato Tirannosauro, tanto per capirci. Se ne conoscono diverse specie, la più nota è Lambeosaurus Lambei, e ne sono stati ritrovati numerosi fossili in tutto il Nord America, dal Canada al Messico. Una delle due sottocategorie in cui si divino gli Adrosauri prende il nome da questo animale, i Lambeosaurini, e comprende tutti i dinosauri dal becco d’anatra dotati di creste elaborate, come i più famosi Parasaurolofo e Coritosauro: come loro anche il Lambeosauro era dotato di un’ampia cresta , percorsa da cavità interne dalla forma convoluta, che la rendevano una perfetta cassa di risonanza in grado di emettere vocalizzi complessi che erano sicuramente importanti per le interazioni sociali, dato che sappiamo grazie al ritrovamento di vari “cimiteri di massa” e di piste d’impronte che i dinosauri a becco d’anatra vivevano tutta la loro vita in branco, e che compivano lunghe migrazioni stagionali, analoghe a quelle dei grandi erbivori africani dei giorni nostri. Oltre alla cresta primaria, nella testa del Lambeosauro era presente anche una sorta di “spina” ossea che si protendeva dal retro della cresta, la cui funzione rimane poco chiara: secondo alcuni era un ulteriore strumento di display, secondo altri era un elemento di sostegno per una struttura di cartilagine e pelle ed andava a formare un’unica grande cresta nell’animale in vita.

Parlando del “becco d’anatra”, che ha fruttato a tutta la famiglia anche il nomignolo di “dinosauri-ornitorinco” è importante notare che non è indicativo in nessun modo di uno stile di vita anfibio, come si pensava un tempo, anzi all’interno della bocca del Lambeosauro e degli altri Adrosauri era celata una pazzesca quantità di piccoli denti, disposti su più file, che indicano che questi animali prediligessero nutrirsi di vegetali coriacei, quali felci e piante aghiformi, e che fossero attrezzati per ingerirne e masticarne in grandi quantità tutti i giorni della loro vita. Questo ovviamente non vuol dire che non venissero mai a contatto con l’acqua o che non sapessero nuotare, ma erano comunque innegabilmente animali terrestri prima di tutto. Viste le dimensioni inoltre, quasi certamente i Lambeosauri passavano quasi tutto il loro tempo su quattro zampe, sebbene potessero spostarsi per brevi tratti anche su due, e potessero impennarsi per apparire più grandi e minacciosi agli occhi di potenziali predatori.

Parlando di predatori, il Lambeosauro non doveva avere vita facile: essendo vissuto alla fine dell’era dei dinosauri ha dovuto fare i conti con coccodrilli giganti, vari rappresentanti della famiglia dei Tirannosauri e con gli ultimi “raptor”. Una volta raggiunta l’età adulta doveva avere pochi nemici naturali, viste le dimensioni ed il fatto che viveva in branco, ma il tasso di mortalità dei giovani era probabilmente molto alto, malgrado le cure dei genitori. Pur essendo i Lambeosaurini più grandi oggi noti, questa non era la varietà di “becco d’anatra” più grossa in assoluto: nell’altro ramo della famiglia, gli Adrosaurini, esistevano alcune specie che raggiungevano una taglia quasi da Sauropode, come l’Adrosauro asiatico Shantugosauro.

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Aepyornis, l’uccello-elefante

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Anche ai giorni nostri il Madagascar è una terra ricca di misteri e forme di vita uniche: distaccatasi dall’Africa milioni di anni fa questa grande isola è un altro di quei luoghi dove piante ed animali hanno seguito percorsi evolutivi a dir poco particolari, favoriti dall’isolamento geografico. Eppure, purtroppo, alcune delle specie animali più fantastiche vissute in Madagascar sono scomparse poco prima che disponessimo dei mezzi e delle conoscenze per studiarne e salvaguardarne la sopravvivenza, come il maestoso Apiornis, estintosi circa un migliaio di anni fa, una vera inezia in termini geologici.

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Abbiamo già parlato in passato di grandi uccelli non volatori ma l’Apiornis era speciale anche in quell’ambito, essendo probabilmente il più grande uccello mai esistito, cosa che gli ha fatto guadagnare il nomigliolo di “uccello-elefante”. Alto la bellezza di tre metri, e dal peso di almeno mezza tonnellata, questo animale in vita doveva somigliare ad una versione “XXL” di un emu o di un casuario, ed era imparentanto alla lontana con loro e con gli struzzi: il ritrovamento di diverse varietà di uccelli non-volatori analoghi in Oceania e nel sud-est asiatico ha portato alcuni paleontologi ad ipotizzare che si tratti di una famiglia di animali molto antica, risalente persino alla fine dell’epoca dei dinosari, quando ancora tutti quei territori facevano parte del grande continente meridionale noto come Gondwana. E’ però altrettanto possibile che si tratti di un altro esempio di evoluzione convergente.

Tassonomia a parte, sorge spontaneo chiedersi perché questi animali avessero finito per diventare tanto grandi, a rinunciando alla capacità di volare per riuscirci. Uno dei vantaggi più ovvi, naturalmente era il ridotto numero di predatori: salvo alcune specie di coccodrillo, non c’era nulla in Madagascar di abbastanza grosso da poter minacciare un Apiornis adulto, che fosse da solo o in gruppo, poi c’erano tutti i vari vantaggi legati alla ricerca del cibo che hanno spinto anche vari rettili e mammiferi nel corso della storia del nostro mondo a diventare enormi: a differenza degli “Uccelli del terrore” che vagavano per l’Europa e le americhe Apiornis era infatti prevalentemente vegetariano, sebbene non si può escludere la possibiliàt che integrasse la sua dieta anche con insetti e piccoli vertebrati.

L’estinzione dell'”uccello-elefante”, come già accennato, è avvenuta in tempi storici: la popolazione ha subito un crollo drastico dopo la colonizzazione umana del Madagascar, in seguito alla caccia intensiva sia degli esemplari adulti che delle gigantesche uova che la specie deponeva, forse le più grandi uova dal guscio duro mai scoperte, arrivando a superare in dimensioni e spessore del guscio persino quelle dei dinosauri erbivori più grandi. Piccole popolazioni di Apiornis potrebbero tuttavia essere sopravvissute più a lungo, e l’estinzione completa della specie è avvenuta molto probabilmente attorno al 1700-1800, e molti avvistamenti di creature leggendarie come Grifoni e Roc potrebbero essere imputabili in realtà ad fugaci incontri fra l’uomo e questi enormi uccelli. Persino Marco Polo nel Milione cita alcune dicerie di persone che hanno viaggiato fino al Madagascar e che sostenevano che sull’isola vivessero uccelli talmente grandi da poter trasportare fra le loro zampe elefanti adulti… anche se si tratterebbe di ovvie esagerazioni. Ma con almeno un fondo di verità.

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Saurosuchus: dinosauro o coccodrillo?

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Sappiamo ormai che l’evoluzione non era un processo lineare: per ogni specie che è sopravvissuta ed ha prosperato nel corso della storia ci sono stati una gran varietà di “esperimenti falliti” che non hanno retto alla prova del tempo e si sono estinti prematuramente. Ed i dinosauri ed i loro parenti stretti non fanno eccezione a questa regola: facenti parte assieme a Coccodrilli e Pterosauri del gruppo degli Arcosauri, essi discendono da forme rettiliane più primitive e ci sono tutta una serie di forme intermedie dette Arcosauromorfi, che non erano nè dinosauri, nè coccodrilli, ma avevano elementi in comune con entrambe le “famiglie”. Il grande carnivoro Saurosuco era fra questi.

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Il Saurosuco faceva parte della famiglia dei Raiusuchidi, ed a grandi linee somigliava ad un enorme coccodrillo con una testa di una grande dinosauro carnivoro… sebbene nessuna di queste due forme di vita fosse ancora apparsa sulla Terra. E’ vissuto circa 230 milioni di anni fa in Argentina, e conosciamo inoltre varie specie analoghe rinvenute in giro per il mondo, di cui la più famosa è probabilmente il Postosuchus, scoperto negli Stati Uniti. I Raiusuchi per un breve periodo sono stati i predatori dominanti nel nostro pianeta, prendendo brevemente il posto dei grandi rettili-mammifero carnivori del Permiano, ormai estinti, per poi venire scalzati dalla cima della catena alimentare dall’arrivo dei primi grandi dinosauri Teropodi. Le prede predilette del Saurosuco e dei suoi parenti Rauisuchi erano i Dicinodonti, grandi rettili-mammifero erbivori, quasi sempre dotati di zanne e/o di robusti becchi cornei, come il Lystrosauro o il Placerias, e altri Arcosauromorfi erbivori come i Trilofosauri o gli Aetosauri.

Anche per gli standard dei Rauisuchi, il Saurosuco era enorme: abbiamo i resti di esemplari che superavano anche i 7 metri di lunghezza, e come già accennato la testa e la bocca di questi animali avevano più cose in comune con quelle di un Tirannosauro che non con quelle dei rettili vissuti prima di loro: persino la dentatura era estremamente simile, essendo formata da denti ricurvi e percorsi da seghettature, adatti a lacerare e trattenere la vittima. Il corpo di questo animale presentava invece alcuni “incovenienti” critici; il tronco e la coda erano simili a quelli dei coccodrilli, e si reggevano su una quartetto di arti dalla conformazione a dir poco bizzarra, a metà strada fra quella di lucertole o coccodrilli e quella dei dinosauri. Questo significava che il Saurosuco ed i Rauisuchi in genere erano dotati di arti in grado di sostenere il peso del grande corpo, ma erano privi dell’agilità e della resistenza riscontrabile successivamente nei grandi Teropodi. Erano animali possenti, ma lenti ed inadatti ad inseguire la preda, cosa che li rendeva costretti a ricorrerre alla caccia tramite lunghi agguati, o farsi forti delle loro dimensioni e potenza per spaventare predatori più piccoli e reclamare le loro prede. Le zampe anteriori inoltre erano molto più corte di quelle posteriori, complicando ulteriormente le cose.

Possenti ma la lenti, e troppo dipendenti dall’esistenza di grandi erbivori ancora più lenti di loro per il proprio sostentamento, non stupisce che il dominio del Saurosuco e dei suoi parenti sia stato di breve durata: sono stati all’apice della catena alimentare solo per un breve periodo di transizione, quando ancora il mondo si stava riprendendo dalla catastrofica estinzione del Permiano, ma l’era dei grandi “lucertoloni” era ormai passata: non a caso negli stessi giacimenti da cui provengono i fossili di Saurosuco abbiamo scoperto anche l’Herrerasauro, uno dei più antichi dinosauri predatori, e probabile “usurpatore” di quest’ultimo.

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Didelphodon: il superstite?

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Si tende a pensare che i mammiferi abbiano iniziato a prosperare solo dopo la scomparsa dei dinosauri, ed è in parte vero: sicuramente non sono esistiti mammiferi di grossa taglia nel Mesozoico, per il semplice fatto che l’ecosistema poteva sostenere due comunità di animali giganti, ma i nostri antenati erano comunque molto diffusi ed ben adattati al loro ambiente, al punto da riuscire a sopravvivere alle varie estinzioni avvenute durante il Mesozoico, compresa l’ultima e più tremenda che segnerà la fine di tutti i dinosauri non-aviali. Il Didelphodon, un marsupiale, è probabilmente stato uno di questi sopravvissuti.

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Il Didelphodon è vissuto in Nord America negli ultimissimi milioni di anni del periodo Cretaceo (circa fra i 70 ed i 65 milioni di anni fa): i resti di questa specie sono stati originariamente scoperti in Wyoming, ma i fossili più completi progengono dal sito noto come Hell Creek Mountain, in Colorado, famoso per essere il luogo da cui provengono anche i migliori fossili di animali quali il T-Rex ed il Triceratops, con cui questo piccolo mammifero condivideva l’habitat. Didelphodon era grande pressapoco come un opossum americano e, come lui, facente parte della famiglia dei Marsupiali, che era originariamente diffusa in buona parte del globo, anziché essere limitata quasi esclusivamente all’Australia, ma il suo aspetto ricordava più quello del moderno Diavolo Orsino, o Diavolo della Tasmania, e come lui era probabilmente quasi esclusivamente carnivoro, come suggerito anche dalla dentatura molto specializzata, adatta a strappare e spezzare anche oggetti molto duri. E’ possibile che fosse un saprofago, in grado di mangiare cartilagine e resti di carne più coriacea, che i predatori di grossa taglia tendevano ad ignorare, ed anche un razziatore di nidi. C’è anche chi ha ipotizzato che fosse un animale semi-acquatico, e che in realtà prediligesse nutrirsi di crostacei ed invertebrati dal guscio duro. Non che una possibilità escluda necessariamente l’altra.

Avendo, come già detto, la taglia di un opossum o di un grosso ratto, ci può apparire che il Didelphodon non fosse in realtà niente di speciale, ma all’epoca in cui è esistito era probabilmente uno dei mammiferi più grandi al mondo, dato che all’epoca dei dinosauri non ce n’erano di più grandi di un cane o di un gatto di oggi, dato che la competizione con i rettili non gli permetteva di inserirsi nei livelli più alti della catena alimentare: questo però con il tempo si è rivelato in realtà un vantaggio fondamentale. Mentre dinosauri, pterosauri e coccodrilli raggiungevano gradi di specializzazione sempre più alti, i nostri piccoli antenati divennero esperti nel sopravvivere e prosperare anche nei più poveri degli ambienti, diffondendosi a loro volta in modo capillare in tutto il globo, in una sorta di “invasione segreta”, ponendosi incosapevolmente nella posizione di diventare un giorno i nuovi dominatori del pianeta.

Quando i dinosauri sono definitivamente scomparsi, provati da una serie di cambiamenti climatici prima e “finiti” poi dal famigerato asteroide killer, gli unici animali in grado di sopravvivere abbastanza lungo da vedere le condizioni ambientali stabilizzarsi nuovamente furono i piccoli animali, in grado di vivere anche in ambienti inospitali, e con poco cibo. Inutile dire che questo pose i mammiferi in una posizione avvantaggiata, con solo alcune specie di piccoli rettili ed uccelli in grado di fargli la benchèminima “concorrenza”, segnando quindi la fine dell’Era Mesozoica.

E’ difficile dire se il Didelphodon sia stato uno dei mammiferi a vedere l’inizio del mondo dei mammiferi… essendo relativamente più grande della maggior parte dei suoi “parenti”, e forse più specializzato della maggiorparte di loro, potrebbe anche essersi estinto assieme ai dinosauri. E purtroppo, anche se così non fosse stato, i Marsupiali non hanno avuto vita facile anche nel successivo Cenozoico, essendo quasi completamente spazzati via dai mammiferi Placentati, nostri antenati.

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Skorpiovenator, un cacciatore del Sud

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Quando parliamo di dinosauri carnivori, spesso ci concentriamo solo su quelli presenti nell’Emisfero Settentrionale… e non senza motivo: i “mostri” più spettacolari come Tirannosauri, Spinosauri, “Raptor” e via dicendo sono tutti vissuti al di sopra dell’equatore per la maggior parte, ma il dominio dei dinosauri sul pianeta è stato globale, e questo vale naturalmente anche per quelli predatori. Il carnivoro che vedremo oggi, lo Scorpiovenator, ad esempio proviene dall’Argentina, località poco conosciuta dagli appassionati “casuali” di dinosauri e paleontologia, ma che negli ultimi anni è stata il teatro di un gran numero di scoperte importanti e persino spettacolari.

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Lo Scorpiovenator, nome che significa “cacciatore degli scorpioni”, deve il suo nome al sito di scavo in cui abbiamo trovato il primo e, per ora, unico scheletro in buono stato di questo animale, che era particolarmente ricco anche di resti di invertebrati ed aracnidi, ma la sua dieta non era certo composta da piccoli animali con molte zampe: faceva parte della famiglia degli Abelisauridi, cacciatori del corpo tozzo e dal muso corto, che sono stati i predatori più diffusi nell’emisfero Sud del globo dalla fine del Giurassico fino all’Estinzione K-T, e discendenti dall’antica famiglia dei Ceratosauri.

Il più famoso membro del gruppo degli Abelisauridi è certamente il Carnotauro, e lo Scorpiovenator aveva alcune caratteristiche in comune con tale specie: erano dotati di zampe posteriori lunghe e muscolose, cosa che probabilmente ci dice che pur essendo troppo grossi per essere grandi corridori erano perlomeno dotati di una notevole resistenza e potevano seguire le loro prede anche per molte ore, il tronco come già detto era piuttosto tozzo, ossia corto, ma robusto.

Le due caratteristiche più peculiari degli Abelisauridi si trovavano però nella parte anteriore del corpo: come i Tirannosauri questi animali erano delle bocche vaganti, e puntavano tutto sulla potenza del morso e della muscolatura del collo, mentre le loro zampe anteriori nel corso delle generazione si erano atrofizzate fino a scomparire quasi del tutto, anzi tale processo di atrofia in proporzione alle dimensioni del corpo era più avanzato in animali come lo Scorpiovenator, che nel T-Rex o nei suoi parenti più prossimi.

La testa infine, era corta ed arrotondata, con forme che conferivano un’aria quasi da bulldog agli Abelisauridi, ma mentre nei rappresentanti più grossi del gruppo, come Abelisauro e Majungasauro, la bocca ed i muscoli associati al morso erano comunque ben sviluppati, nello Scorpiovenator erano relativamente deboli, cosa che ci dice che era probabilmente un predatore di “serie B”, impressione poi confermata studiando le altre specie vissute nella stessa epoca e nello stesso territorio.

Scorpiovenator è vissuto in un’area in cui sono stati trovati fossili e nidi di erbivori giganti, quali l’Argentinosauro, e predatori di dimensioni molto maggiori delle sue quali Mapusauro (parliamo di 8-9 metri di lunghezza per Scorpiovenator, e 13-15 per Mapusauro) ed essendo quindi una bestia di taglia considerevole, ma ben lontano dal potersi ergere al di sopra del resto degli animali che popolavano l’Argentina al suo tempo (circa un centinaio di milioni di anni fa) è possibile che ricoprisse un ruolo nella catena alimentare paragonabile a quello del leopardo: un carnivoro attivo ed adattabile, che però si ritrovava costretto a vivere all’ombra di pretatori più grossi.

E’ possibile che vivesse stabilmente in uno stesso territorio, anziché migrare assieme ai grandi branchi di dinosauri erbivori, ma sicuramente quando animali come l’Argentinosauro facevano ritorno nella bella stagione per nidificare, uova, piccoli ed esemplari malati o vecchi dovevano essere una parte fondamentale della dieta dell Scorpiovenator, che magari si riuniva anche in “bande” temporanee per migliorare le chance di procacciarsi un pasto grazie alla forza del numero, come fanno i coccodrilli o i varani.

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Desmodus Draculae: il vampiro gigante

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I Chirotteri, ossia i pipistrelli, sono una delle famiglie di mammiferi più antiche e più diffuse del pianeta: i primi resti fossili di questo gruppo in nostro possesso risalgono a più di 50 milioni di anni fa, ed appare possibile che possano essere esistiti ancora più a lungo, forse persino prima dell’estinzione dei dinosauri. Sono dei sopravvissuti, in grado di adattarsi quasi a qualsiasi condizione ambientale, tranne che al tipo di avvelenamento ambientale che noi stiamo ora causando, e sono di fondamentale importanza per mantenere sotto controllo la popolazione di insetti nocivi, come zanzare e tafani, che rappresentano il nutrimento primario di buona parte delle specie di Chirotteri a noi nota. Eppure sono animali ritenuti ripugnanti, ed associati a fobie e superstizioni, in particolare quelle legate a streghe e vampiri, sebbene solo una specie vivente, il Desmodus Rotundus, is nutra di sangue umano… tuttavia è esistita un’altra specie appartenente allo stesso genere che sembra uscita dalla penna di uno scrittore di romanzi gotici: il Desmodus Draculae, noto comunemente come Vampiro Gigante.

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I fossili di questa creatura sono estremamente recenti: ne sono stati trovati resti ossei ancora non del tutto mineralizzati e mischiati con altri appartenuti a ad esemplari di specie di Chirotteri ancora viventi, chiaro segno che il Vampiro Gigante si è estinto al massimo poche migliaia di anni fa. Come spesso accade con gli animali volanti le sue ossa sono leggere e cave, uno dei tanti adattamenti sviluppati per migliorare l’efficenza del volo, quindi tutto ciò che di rimane di questo inquietante mammifero sono dei frammenti, che però sono stati sufficenti a determinare che fosse significativamente più grande del Pipistrello Vampiro vivente, la cui apertura alare è di circa una quindicina di centrimetri, si stima fra il 30 ed il 50% più grande, quindi pressapoco delle dimensioni di un merlo. Che per un pipistrello, specialmente uno dalla dieta tanto pecularie, non è comunque cosa da poco.

I membri viventi del genere Desmodus sono detti vampiri per una ragione ben precisa: come quelli dei racconti gotici infatti sono parassiti che si nutrono di sangue, prediligendo quello dei grandi mammiferi, come suini e bovini, ma non disdegnando neppure quello umano. Considerando che il Vampiro Gigante deve essere esistito almeno per alcuni milion di anni prima di scomparire la ragione della sua taglia maggiorata è facile da spiegare: fino a pochi milioni di anni fa in Sud America, la sua terra natia, era ancora popolato da erbivori giganti, che dovevano essere una eccellente fonte di nutrimento, consentendo alla specie di raggiungere dimensioni ragguardevoli. I Vampiri viventi si nutrono provocando piccole ferite con i denti, e mantenendo le vittimi ignare della loro presenza grazie ad un anestetico naturale presente nella loro saliva, che ovviamente finisce in abbondanza nelle ferite mentre il pipistrello lecca il sangue dalla sua preda, la saliva ha inoltre proprietà anti-coagulanti, facilitando ancor di più il pasto del vampiro. Essendo tanto simile al suo parente vivente è ragionevole pensare che anche il Vampiro Gigante avesse abitudini ed “equipaggiamenti” dello stesso tipo, o molto simili.

Come quasi tutti i pipistrelli i Vampiri Giganti vivevano in gruppo e probabilmente si nutrivano in gruppo: il pensiero di uno stormo di queste creature intente a banchettare dei fluidi di un bradipo o di un armadillo gigante, mentre questi è completamente ignaro ed addormentato è a dir poco inquietante. Il nome “Draculae” attribuito alla specie ha certamente almeno in parte giustificato.

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Latimeria, il pesce preistorico… non proprio estinto

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Ci sono un sacco di romanzi, racconti e film che parlano della scoperta di animali preistorici ancora vivi ai giorni nostri: purtroppo in realtà nessuno ha mai scoperto, in qualche remoto angolo del mondo, dinosauri o mastodonti, ma occasionalmente ci si imbatte in quelli che vengono definiti “fossili viventi”, ossia animali discendenti da antiche specie estinte che sono cambiati poco o niente nel corso dei millenni. Uno dei più interessanti è il Latimeria, detto anche Celacanto.

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Il Celacanto è un grosso pesce di acqua salata, ultimo rappresentante della famiglia dei Sarcopterigidi, i cui più antichi resti fossili risalgono a quasi 400 milioni di anni fa, ossia al periodo Devoniano, ed è uno dei famigerati “pesci con le zampe” da cui si ritiene siano poi derivati i primi anfibi. Potevano raggiungenge una taglia di quasi due metri, con un peso stimato fra i 60 e gli 80 chilogrammi, e come detto le loro grosse pinne pettorali e anali (quelle vicine alla coda) erano dotate di “rinforzi” ossei in grado di sostenere il peso del pesce qual’ora si ritrovasse spiaggiato o in acque basse, consentendogli di strisciare lontano dal pericolo, verso acque più profonde. I loro fossili più recenti risalgono alla fine del periodo Cretaceo, e per lungo tempo si è pensato che fossero stati una delle tante forme di vita a scomparire assieme ai dinosauri durante la grande estinzione K-T… finché nel 1938 non ne è stato pescato lungo le coste del Sud Africa. Da allora abbiamo scoperto l’esistenza di non una, ma ben due specie viventi appartenenti al genere Latimeria.

Le forme viventi di Celacanto, grazie al loro fisico robusto, sono in grado vivere sia lungo le coste che ad elevate profondità, sebbene tendano a risalire verso acque più basse solo per brevi periodi di tempo, presumibilmente per nutrirsi. Hanno occhi ben sviluppati, in grado di percepire la più piccola variazione luminosa, cosa che senz’altro gli è di aiuto nella caccia, dato che sono pesci predatori, e tendono a condurre un’esistenza solitaria, sebbene una spedizione sottomarina ne abbia individuato un gruppo di oltre una dozzina di esemplari: oltre che un predatore di dimensioni significative, un Celacanto adulto è anche un’ostica preda, dato che è ricoperto da scaglie spesse e coriacee, e che la sua pelle secerne continuamente un muco leggermente tossico, lassativo per gli umani. Dopo il primo ritrovamento in Sud Africa ne è stata confermata la presenza in vari punti dell’Oceano Indiano, traddandosi però di un animale raro e sfuggente ci vollero ben 14 anni dopo la scoperta del primo esemplare, per trovarne un secondo!

Confrontati con i fossili, i Latimeria viventi non sono cambiati quasi per nulla rispetto ai loro antenati: nel Mesozoico c’erano decine di specie di questo pesce in circolazione, molte delle quali vivevano in acque basse o forse persino nei fiumi, ma erano le varietà adattate alla vita a centinaia di metri di profondità ad essere quelle virtualmente identiche alle specie tutt’ora viventi, cosa che spiega la sopravvivenza di questo pesce fino ai giorni nostri. E’ chiaro che siano stati i Celacanti “abissali” a sopravvivere alla Grande Estinzione, vivendo già in un ambiente che non dipendeva dalla luce solare, e che non ha registrato significativi cambiamenti di temperatura causati dal disastro, per poi passare milioni e milioni di anni isolati in un habitat dove la formazione di tracce fossili è quasi impossibile ed infine riadattandosi solo in parte a vivere a profondità minori.

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Wuerhosaurus, l’ultimo Stegosauride

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Gli Stegosauri sono fra le tipologie di dinosauri più famose e spettacolari: ritratti in un’infinità di racconti, film e quant’altro, sono senza dubbio uno dei simboli del mondo preistorico, e siamo abituati ad immaginarceli mettere alle strette predatori quali il Tirannosauro, come accade nel classico film di animazione “Fantasia” della Disney. La verità però è che si tratta di un gruppo che ebbe un successo tanto fulminante quanto breve, e che si estinse molto prima della fine dell’era dei dinosauri. L’ultimo stegosauro attualmente noto alla scienza è il Wuerosauro.

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I pochi resti di questo animale al momento in nostro possesso sono stati trovati in Cina ed in Mongolia, e risalgono a circa un centinaio di anni fa, ossia alla prima metà del periodo Cretaceo. Gli studiosi ne riconoscono al momento tre specie, di cui una scoperta pochi anni fa, ma la cui classificazione rimane dubbia.

A prima vista il Wuerosauro era un tipico rappresentante della sua famiglia: grande pressapoco come un elefante, con un peso stimato di 3-4 tonnellate ed una lunghezza massima di 7-8 metri dalla testa alla coda; come il più famoso Stegosauro americano era dotato di due file di piastre ossee parallele, ma sfasate fra loro, e del cosiddetto “Thagomizer”, ossia un assemblamento di due coppie di enormi spuntoni ossei alla fine della coda, quasi certamente la miglior difesa che questi animali possedevano contro rivali e predatori.

Delle piastre ossee abbiamo fossili piuttosto malridotti, ma che sembrano indicare che fossero insolitamente basse e squadrate, quando in quasi tutte le altre specie della famiglia erano di forma pentagonale o affusolata, e decisamente prominenti. C’erano anche altre differenze anatomiche più difficili da cogliere ad un primo sguardo, ma comunque significative: i paleontologi ritengono ad esempio che la conformazione delle ossa degli arti e del collo indichino che questo dinosauro passava gran parte del suo tempo con la parte anteriore del corpo “proiettata” verso il basso, probabilmente un adattamento frutto di un cambio di dieta.

Gli Stegosauri del Giurassico vivevano in habitat ricchi di felci e piante secolari; pur non raggiungendo le cime degli alberi come i Sauropodi sembra probabile, vista anche la loro dentatura relativamente debole, che si nutrissero di piante dal fusto basso, arboscelli ed altra vegetazione situata a “media altezza” dal suolo, piuttosto che brucare a livello del suolo.

Durante il Cretaceo, con il clima che si fece più mite e la diffusione sia delle piante da fiore che di una nuova generazione di erbivori mise gli Stegosauri in una brutta posizione, spingendoli a tentare di trovare nuove fonti di cibo, cosa che spiegherebbe la postura da brucatore del Wuerosauro: considerando però che non abbiamo resti fossili di specie vissute successivamente, sembrerebbe che il gruppo si sia definitivamente estinto attorno alla metà del Cretaceo.

Fino a qualche anno fa si credeva che gli Stegosauri fossero sopravvissuti più a lungo nel sub-continente indiano, ma si trattava di speculazioni basate su pochi ed estremamente frammentari fossili che si sono poi rivelati appartenere a rettili marini, si pensa della famiglia dei Plesiosauri.

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