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Benvenuti su Pangea Post!

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Buongiorno a tutti voi del web, e come da titolo, benvenuti su Pangea Post, la nuova rubrica a tema paleontologico nata dalla collaborazione fra il sottoscritto Andrea Maraldi ed il sito di divulgazione scientifica Gaianews.it.

Qui potrete trovare ogni settimana una nuova scheda, o meglio un nuovo “post” (di nuovo, come da titolo) ricco di informazioni su una delle tante creature che hanno popolato il nostro pianeta prima della comparsa dell’uomo: si parlerà spesso e volentieri di dinosauri naturalmente, ma con cadenza regolare anche di animali vissuti molto prima o molto dopo di loro, ma altrettanto curiosi ed interessanti.

La priorità in ogni caso andrà a creature di cui raramente si parla in film o documentari; piuttosto che imbattervi in tirannosauri o triceratopi aspettatevi quindi di scoprire informazioni sui loro cugini cinesi, o sul mammut californiano piuttosto che del suo analogo lanoso che viveva in Russia, noto a tutti. 

Giocheremo un po’ a fare gli snob insomma, cercando di evitare di parlare di quel po’ di creature note a tutti, al fine di mostrare che la stupefacente varietà della vita preistorica va ben oltre i “soliti noti”, anche se comunque potremmo riservare un po’ di attenzione anche loro in qualche occasione speciale. Ogni post sarà inoltre corredato da un’illustrazione realizzata ad hoc sempre da me: la mia principale occupazione in effetti è quella di artista, o paleo-artista, come certuni in questo campo amano definirsi.

La rubrica rimarrà attiva per tutto il 2014, grazie al supporto di Gaianews.it, ma spero che sarà seguito da abbastanza persone da motivarci a proseguire anche dopo. Prima di passare ai post veri e propri, ci tengo a precisare un’ultima cosa: la mia passione per la paleontologia e la divulgazione scientifica è un qualcosa che mi porto dietro praticamente fin dall’infanzia, ma come ho già detto la mia professione primaria è, o vorrebbe essere, quella di artista: non pretendo di sapere tutto sulla vita preistorica, ma farò del mio meglio per essere accurato e completo riguardo a ciò che scrivo.

Invito comunque qualsiasi altro appassionato che pensi di sapere qualcosa in più di me a segnalare eventuali imprecisioni o omissioni, purché ciò sia fatto in modo civile e rispettoso, sapendo che sono solo una persona che vuole condividere le sue passioni sul web, e tentare di fare un po’ di buona divulgazione scientifica grazie ad esse.

Detto questo, vi do nuovamente il benvenuto su Pangea Post!
-AM-  

Thethyshadros

1-tetisadro

Il Tetisadro era un dinosauro erbivoro di taglia media, 3-4 metri di lunghezza, vissuto circa 70 milioni di anni fa, quasi alla fine dell’era dei dinosauri: è stato scoperto in una località poco fuori Trieste ed è attualmente il dinosauro italiano più grande di cui possediamo uno scheletro in buono stato.

L’aspetto di questo dinosauro era abbastanza tipico, almeno ad una prima occhiata: sembrava il classico Ornitopode (i dinosauri erbivori senza corazza, ed in grado di muoversi sia su due che su quattro zampe) ma era il realtà uno strano miscuglio di vecchio e nuovo che ricordava sia i più antichi Iguanodonti scoperti nel Regno Unito, che i più recenti, gli Adrosauri dal becco d’anatra che vivevano in Asia ed in Nord America. L’opinione più diffusa è che si tratti di una specie di Adrosauro con caratteri ancora primitivi, migrata fino all’Europa Mediterranea, ma non si può ancora escludere che si tratti di una specie anomala di Ornitopode di origine europea.

Una delle caratteristiche più distintive del Tetisadro era la sua testa: il teschio aveva la classica forma da cavallo degli Iguanodonti, ma terminava con un becco d’anatra come quello degli Adrosauri, che però aveva i margini seghettati, cosa mai riscontrata in altri erbivori di questo tipo. La coda inoltre era più sottile e “leggera”, cosa che la rendeva meno efficace per mantenere l’equilibrio quando e se l’animale si muoveva su due zampe, ma che forse le conferiva maggiore efficacia se utilizzata come “frusta” per difendersi dai predatori.

Pur essendo il dinosauro italiano più grande di cui abbiamo dei reperti fossili (nel nostro territorio tuttavia sono state trovate impronte di animali più grandi più o meno risalenti a quel periodo) il Tetisadro era in realtà più piccolo della media degli Ornitopodi: i già citati Iguanodonti erano lunghi spesso più del doppio. Si tratta molto probabilmente di una specie “nana”, come se ne trovano anche nell’Europa dell’Est. Il motivo della presenza di questi dinosauri “pocket size” è semplice: salvo alcune masse continentali più grosse in corrispondenza delle Isole Britanniche e della Spagna, buona parte dell’Europa era semi-sommersa dal mare con solo gruppi di isole che emergevano dalle acque, troppo piccole per ospitare una popolazione di animali giganti. Nel giro di alcune generazioni quindi, i discendenti dei dinosauri arrivati dalla terraferma diventavano più piccoli, riuscendo così a sopravvivere con meno cibo ed in spazi più ristretti. La teoria che si tratti di animali insulari potrebbe anche spiegare il loro aspetto insolito: avere una piccola popolazione in un luogo isolato significa anche avere una ristretta varietà genetica che con il tempo può portare allo sviluppo di anomalie genetiche più o meno problematiche o bizzarre. Il becco seghettato del Tetisadro potrebbe essere un’anomalia di questo tipo, ma anche solo essere un adattamento dovuto ad un’alimentazione particolare.

Sembra molto probabile che nella cava dove il primo scheletro di Tetisadro (battezzato scherzosamente Antonio) è stato estratto ci siano altri resti di questa specie, o forse persino di altri dinosauri italiani ancora ignoti, ma purtroppo, come in tanti altri campi, la ricerca paleontologica nel nostro paese procede lenta e stentatamente, per mancanza di fondi e di interesse.

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Arthropleura, un millepiedi di due metri

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Questa settimana abbandoniamo l’era dei dinosauri per andare molto più indietro: l’animale di cui parliamo oggi è infatti vissuto più di 300 milioni di anni fa, in un’età della Terra in cui il pianeta era ricoperto quasi interamente da foreste e giungle, i cui resti depositatisi nel millenni sono una delle componenti di base più importanti del carbone e degli altri combustibili fossili. Proprio per questo la remota epoca in questione è stata battezzata dagli scienziati Carbonifero.

L’animale di oggi, l’Artropleura, è un gigantesco millepiedi: le stime fatte dagli scienziati attestano che la sua lunghezza fosse di almeno un metro e mezzo o due. Un animale da record insomma: si tratterebbe infatti del più grande insetto, se non del più grande invertebrato terrestre, mai vissuto sul nostro pianeta.

Sebbene purtroppo i suoi resti siano molto frammentari, sono stati ritrovati numerosi fossili di questa creatura, e persino piste di impronte (se non di questa specie, comunque di altre molto simili) in varie località dell’Europa e del Nord America, in particolare in Scozia, Ohio ed Illinois.

Non abbiamo resti in buono stato della sua testa e delle sue fauci, ma essendo molto simile ai moderni millepiedi e centopiedi, è ragionevole pensare che come loro si nutrisse di piante e residui organici vari trovati a livello del suolo. Viste le sue dimensioni, forse occasionalmente anche piccoli animali e uova di altri insetti rientravano nella sua dieta.

Arthropleura

Sicuramente la taglia dell’Artropleura era un’efficace difesa dai predatori del suo mondo, è probabile però che tale caratteristica non si sia sviluppata come un meccanismo di difesa, ma che sia piuttosto una conseguenza indiretta di una condizione unica del suo ambiente natale: nel mondo del Carbonifero le piante hanno raggiunto una diffusione mai più eguagliata nella storia del nostro pianeta e, di conseguenza, i livelli di ossigeno nell’atmosfera erano molto superiori di quelli a cui noi siamo abituati, rendendo molto più facile anche ad animali con un metabolismo ed un sistema respiratorio poco efficiente, come gli insetti appunto, di svilupparsi in modo anomalo e raggiungere dimensioni ragguardevoli. Per la stessa ragione gli Artropleura e gli altri invertebrati giganti della sua epoca si sarebbero poi estinti alla fine del Carbonifero, quando la Terra si è fatta molto più arida e spoglia e la quantità di ossigeno nell’aria ha iniziato a diminuire, avvicinandosi a percentuali simili a quelle attuali.

Come abbiamo detto, questo enorme insetto doveva avere ben pochi nemici naturali una volta raggiunta l’età adulta: fra di essi c’erano scorpioni giganti quali il Pulmonoscorpius, delle dimensioni di un grosso gatto, ed i grandi anfibi che vivevano nelle aree paludose del suo dominio, che però molto probabilmente incontravano raramente l’Artropleura, che si pensa prediligesse il terreno solido piuttosto che gli ambienti in cui questi ultimi vivevano. Uova, larve ed esemplari giovani dovevano invece essere prede ambite ed un anello importante della catena alimentare, e dovevano guardarsi anche dalle libellule (le quali a loro volta nel Carbonifero raggiunsero dimensioni gigantesche) e dai primissimi rettili e proto-rettili quali il Pulmonoscorpius.

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Hatzegopteryx, il più grande animale volante mai esistito

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Un paio di settimane fa abbiamo parlato di “nanismo insulare”, ossia di come nell’Europa preistorica, costellata di isolette i dinosauri per sopravvivere al meglio si siano “rimpiccioliti” col passare delle generazioni. L’Hatzegopteryx, che pure viveva in Europa circa 70 milioni di anni fa, si trovava nella situazioni diametralmente opposta: si tratta infatti del più grande animale volante attualmente conosciuto. Hatzegopteryx faceva parte della famiglia degli Azhdarchidi, l’ultima stirpe di Pterosauri, ossia i rettili volanti “cugini” dei dinosauri, ad aver fatto la sua comparsa e che comprendeva le specie di dimensioni più grandi: il più famoso membro di questa famiglia, ed uno di quelli più studiati, era l’americano Quetzalcoatlus, che aveva un’apertura alare che oscillava fra i 10 ed i 12 metri, ed una massa corporea totale doppia o tripla di quella di un essere umano di media corporatura.

L’Hatzegopteryx aveva un’apertura alare più o meno uguale, ma una corporatura notevolmente più massiccia, arrivando ad essere grosso pressapoco quanto una giraffa. I primi resti di questo pterosauro sono stati trovati in Romania, per la precisione ad Hatzeg, in Transilvania, che nel tardo Cretaceo era una delle tante isole che si trovavano dove ora ci sono l’Italia, la Grecia ed i balcani. La struttura ossea degli pterosauri era molto ricca di cavità e sacche d’aria per renderla più leggera e facilitare il volo, ma ciò sfortunatamente rende anche molto difficile che le loro ossa si fossilizzino: i resti di Hatzegopteryx purtroppo sono abbastanza frammentari, ma i paleontologi sono stati in grado di ricostruirne l’aspetto in modo verosimile anche confrontandone i resti con quelli di altri rettili volanti più completi.

 

Hatzegopteryx

Questo pterosauro era molto probabilmente uno dei predatori dominanti dell’Europa sud-orientale: essendo in grado di spostarsi da un’isola all’altra volando non aveva difficoltà a trovare grandi quantità di cibo anche in un ambiente difficile come quello in cui viveva, ragion per cui anziché diventare più piccolo come tanti altri animali insulari aveva finito per essere anche più grosso dei suoi analoghi che vivevano sulla terraferma. La sua massa corporea maggiore lo rendeva relativamente meno fragile della maggioranza dei suoi “cugini” e questo ha  portato alcuni scienziati ad ipotizzare che passasse molto tempo al suolo, e forse persino che cacciasse a terra, dove la sua taglia gli rendeva facile sopraffare, o perlomeno intimidire, i dinosauri nani che vivevano ad Hatzeg, e nelle altre isole probabilmente visitate da questa specie. Oltre che per ragioni legate alla caccia, gli ultimi pterosauri quali Hatzegopteryx erano enormi anche per via della competizioni con gli uccelli: questi ultimi infatti, più adattabili e migliori volatori attivi, già molto tempo prima della fine dell’era dei dinosauri avevano spinto all’estinzione le specie di pterosauri più piccole, perdendo la competizione per il cibo ed il territorio solo contro le varietà più gigantesche di rettili volanti.

Come tutti gli pterosauri di grandi dimensioni, Hatzegopteryx quasi certamente non volava in modo “attivo”, ossia sbattendo le ali tutto il tempo, ma si comportava più come un aliante o un aquilone vivente, sbattendo le ali solo per decollare e portarsi abbastanza in alto per lasciarsi trasportare delle correnti d’aria naturali: in questo modo era in grado di spostarsi per lunghe distanze, anche nell’ordine di centinaia di chilomentri, con un dispendio minimo di energie. Come tutti gli pterosauri era coperto da una fitta peluria che lo manteneva caldo quando si spostava in alta quota.

In un sacco di vecchi film e fumetti gli pterosauri vengono rappresentati come dotati di ali fatte nella stessa maniera dei pipistrelli: ossia con una struttura ad “ombrello”, con vari lembi di pelle tesi fra le lunghissime dita delle zampe anteriori. In realtà gli pterosauri erano dotati di un’unica membrana alare per lato, fatta di pelle e tessuti fibrosi leggeri e resistenti, che andava dall’ultimo dito della zampa anteriore, allungato a dismisura, fino a toccare la zampa posteriore.

Questa configurazione, simile come già detto a quella di un aquilone, rendeva gli pterosauri incredibilmente efficienti in aria, ma li costringeva a muoversi sulla terraferma “gattonando”, siccome zampe anteriori e posteriori erano “legate assieme” dalle membrane alari. Di recente sono anche state trovate piste di impronte di pterosauri giganti simili ad Hatzegopteryx che confemano questo loro modo di spostarsi al suolo.

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Phorusrhacos: l’uccello del terrore

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Veniamo oggi a qualcosa di un po’ più recente, ma comunque di molto, molto interessante: il Fororacro, noto anche come Uccello del Terrore. Questo predatore è uno degli ultimi di una schiatta di enormi uccelli non volatori carnivori, che ben poco avevano da inviare ai loro antenati Dinosauri; il Fororacro in particolare è vissuto in Argentina fin quasi alla fine dell’ultima glaciazione. E’ stato uno dei predatori alfa del suo mondo, ma poi la sua diffusione si è ridotta gradualmente fino alla totale scomparsa della specie.

Il Fororacro superava abbondantemente il quintale di peso ed era alto pressappoco due metri e mezzo: solo il suo cranio era lungo più di mezzo metro, ed aveva l’aspetto di un enorme maglio osseo, che terminava in un grande becco dalla punta ad uncino, ideale per trattenere le prede o lacerare la carne delle medesime. Le zampe posteriori erano simili a quelle degli struzzi o degli emu, ma erano molto più muscolose e lo rendevano una creatura sorprendentemente agile in rapporto alle sue dimensioni. Al termine di ogni zampa c’erano tre dita munite di grandi artigli, simili a quelle degli uccelli rapaci, ma ovviamente molto più grandi. Le ali invece con il passare delle generazioni si erano atrofizzate, dato che un simile colosso ovviamente non poteva volare, ma su di esse era presente un “dito” uncinato che, similmente alle “braccine” del Tirannosauro, probabilmente gli era utile per mantenere la presa sulle prede più grandi, o sul dorso del proprio partner durante l’accoppiamento.

 Phorusracos l'uccello del terrore

Come quasi tutti i super-predatori, l’Uccello del Terrore non cacciava mai attivamente le sue prede a meno che non avesse altra scelta: le sue dimensioni e le sue armi gli consentivano di intimidire ed allontanare gran parte dei predatori più piccoli, e di guadagnarsi il cibo facilmente sottraendo loro carogne o prede appena uccise. Quando cacciava, le sue prede preferite dovevano essere esemplari giovani o malati di grandi mammiferi quali il Toxodon, che popolavano il Sud-America durante il suo “regno”. Il potente becco lo rendeva anche quasi sicuramente in grado di avere la meglio su tartarughe ed armadilli, cosa che in parte spiegherebbe perché all’epoca ne esistessero specie davvero enormi. Per milioni di anni i Fororacri furono fra i dominatori incontrastati del loro continente, fino a che Nord e Sud America non si ritrovarono nuovamente connessi a causa della deriva dei continenti: a quel punto mammiferi predatori quali la famosa tigre dai denti a sciabola raggiunsero i loro territori, e la competizione con questi nuovi killer li spinse gradualmente all’estinzione. Animali simili al Fororacro hanno però continuato ad esistere fino a poche centinaia di migliaia di anni fa, ed è ragionevole pensare che occasionalmente gli ultimi Uccelli del Terrore abbiamo incrociato la strada anche dei nostri antenati. 

Sebbene enorme, il Fororacro non era il più grande membro della sua famiglia: nel 2007 è stato scoperto un suo “cugino”, battezzato Kelenken, alto più di tre metri e pesante quasi 200 chili! Vissuto pressapoco negli stessi territorio e nella stessa epoca del Fororacro, è facile immaginare che fra queste due specie di uccelli giganti non regnasse l’armonia: se davvero hanno coabitato negli stessi ambienti probabilmente fra loro c’era lo stesso tipo di “rapporti di vicinato” molto tesi che è possibile osservare, ad esempio, fra le diverse specie di grandi felini in Africa ed Asia, che si contendono prede e territori, e che non esitano ad uccidere i piccoli della specie “avversaria”. Come tutti i grandi uccelli, naturalmente i Foraracri ed i loro “parenti” erano infatti più vulnerabili nei primi mesi o anni di vita, anche perché animali così grossi erano costretti a fare il nido a terra, dove era più esposto, ed in quanto predatori probabilmente ogni nidiata era composta da pochissimi pulcini, se non addirittura da uno solo. Eliminare i già esigui neonati, e quindi mettere a rischio il ricambio generazionale, era un buon modo per sottrarre terreno alla specie. Una debolezza che sicuramente ha contribuito alla vittoria dei carnivori provenienti dal Nord su questi inquietanti predatori.

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Acheulosaurus, il dinosauro cornuto apparentemente privo di corna

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Questa settimana torniamo a parlare di dinosauri veri e propri, con questo interessante erbivoro. Vissuto circa 70 milioni di anni fa nell’America del Nord, l’Acheulosauro era un Ceratopside (ossia un dinosauro dotato di becco e corna, come il Triceratopo) decisamente difficile da confondere con i suoi altri “parenti”: lungo 4-5 metri, pressapoco la taglia di un rinoceronte, e con una testa lunga  quasi un metro e mezzo, era uno dei pochissimi dinosauri cornuti americani… apparentemente privi di corna.

Analogamente al più famoso Pachyrinosaurus, con cui si ritiene sia imparentato, l’Acheulosauro non aveva grandi corna sopra gli occhi o vicino al becco, ma solo un curioso “bulbo” osseo in mezzo al muso ed un paio di di spuntoni sullo “scudo” che, come in tutti i dinosauri della sua famiglia, partiva dalla sua nuca. Il motivo di questa configurazione bizzarra è tutt’ora molto discusso: non tutti infatti credono che i Ceratopsidi fossero i “combattenti” che siamo abituati a vedere nei film.

Gli studiosi che ritengono che i Ceratopsidi usassero le loro corna e spuntoni per difesa sostengono che il “bulbo” dell’Acheulosauro fosse solo il punto d’appoggio di un corno come quello dei rinoceronti, composto di cheratina (la sostanza che forma anche le nostre unghie) o di una proteina simile, che quasi mai lascia tracce fossili chiare e durature, ma c’è anche chi invece ritiene che le “armi” dei dinosauri cornuti fossero solo utilizzate come difese passive o per mettersi in mostra, e semplicemente che le forme diverse del cranio dell’Acheulosauro aiutassero i membri della specie a riconoscersi fra loro, in un’epoca in cui ancora i Ceratopsidi erano molto diffusi e molto diversificati. L’illustrazione in questo articolo si rifà a questa seconda ipotesi. 

acheulosaurus

In generale, anche se l’aspetto dei dinosauri cornuti quali l’Acheulosauro ci fa immediatamente pensare al rinoceronte, si trattava in realtà di animali che conducevano uno stile di vita più simile a quello degli Ungulati (i mammiferi erbivori dotati di zoccoli): è accertato ad esempio che alcune specie, analogamente agli Gnu africani, si radunassero in branchi di centinaia o migliaia di individui per compiere lunghe migrazioni stagionali, coprendo distanze di diverse migliaia di chilometri, giungendo persino oltre il circolo polare artico.

Una delle cose che quasi certamente NON avevano in comune con bovini ed equini era la dieta: il grande becco dell’Acheulosauro e degli altri Ceratopsidi indica chiaramente che si tratti di animali in grado di nutrirsi non solo di fiori ed erba (l’erba vera e propria in effetti non esisteva ancora all’epoca dei dinosauri!) ma anche di alimenti molto più coriacei, come corteccia, felci e frutta dal guscio duro. La potenza del morso di questi animali doveva essere davvero notevole, considerando che si trattava di erbivori: i muscoli della bocca si attaccavano al grande scudo nucale, sviluppando una forza paragonabile a quella di tiranti industriali. 

L’Acheulosauro era tutto sommato un rappresentante della sua famiglia abbastanza piccolo: il già citato Pachyrinosaurus, suo analogo, era grande quasi il doppio di lui, ma questo forse era un vantaggio, dato che la sua corporatura più “minuta” probabilmente gli permetteva di spostarsi con maggior facilità in ambienti dove la vegetazione era molto fitta, ed al tempo stesso sicuramente non era costretto a mangiare tanto quanto i suoi “cugini” più grossi. Come quasi tutti i rappresentanti della sua famiglia, comunque, si estinse alcuni milioni di anni prima della fine dell’era dei dinosauri: solo il triceratopo e pochissime altre varietà di dinosauri cornuti erano ancora in circolazione all’epoca. 

 

 

 

 

 

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Anomalocaris, un animale antichissimo e dall’aspetto alieno

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Il post di oggi riguarda una creatura davvero speciale: l’Anomalocaris, un animale antichissimo e dall’aspetto alieno. Vissuto più di 500 milioni di anni fa, nel tardo periodo Cambriano, questo inquietante invertebrato è stato uno dei primissimi super-predatori vissuti nel nostro pianeta.

C’è da dire subito che con il termine “super-predatore” in questo caso stiamo parlando solo del ruolo dell’animale nel suo ecosistema: l’Anomalocaris effettivamente era uno dei più grandi predatori del suo mondo, ma parliamo comunque di una creatura che non superava il metro di lunghezza, e che “dominava” un mondo popolato di creature marine  dalle dimensioni medie pari a quelle di una tazzina da caffè (salvo alcune sporadiche eccezioni).

Questo antico cacciatore non ha lasciato discendenti in vita ai giorni nostri, così come molti invertebrati del Cambriano, ma sembra essere lontanamente imparentato, o comunque per certi versi simile, agli Artropodi, come insetti e crostacei.

Se avessimo potuto vederne uno vivo, probabilmente lo avremmo trovato simile ad uno strano incrocio fra un gambero ed una seppia: dotato di un corpo segmentato, ma in grado di nuotare attivamente anziché striciare sul fondale del mare; sulla sua testa erano presenti un paio di occhi dall’aspetto bulboso, situati sopra due peducoli, forse mobili. Questa conformazione dell’apparato visivo doveva essere probabilmente molto utile durante la caccia, in un mondo dove la vista era ancora una novità evolutiva e molti animali erano solo in grado di percepire differenze nell’intensità della luce.

La bocca dell’Anomalocaris era un’altra caratteristica molto peculiare di questa specie: la bocca vera e propria era un’apparato di forma rotonda, simile ad un vero e proprio tritarifiuti, dove diverse placche di materiale corneo molto duro (la cosa più simile ai denti allora presente in natura) trituravano i gusci delle prede dell’animale e sminuzzavano la polpa al loro interno, facilitando la digestione.

Anomalocaris

Per portare le vittime verso questa trappola, l’Anomalocaris era dotato nella parte anteriore del muso di due “antenne” estremamente mobili e dotate nella parte interna di grosse spine, con cui immobilizzava le prede prima di “morderle”. Stabilire la tecnica di caccia di una creatura vissuta così tanto tempo fa è quanto meno difficile, ma dato che i suoi occhi erano posizionati nella parte superiore della sua testa è possibile che fosse un predatore da fondale come ne esistono anche ai giorni nostri, e che tendesse agguati agli altri animali marini nascondendosi sotto la sabbia.

Fra le prede abituali dell’Anomalocaris dovevano esserci sicuramente i Trilobiti, piccoli invertebrati un tempo così diffusi che i loro resti sono fra i fossili più comuni nel mondo, ed i Cordati, animaletti dall’aspetto vermiforme, ma che sono in realtà i più remoti antenati conosciuti del gruppo dei Vertebrati e, quindi, anche i nostri più remoti antenati.

Essendo un invertebrato tanto antico quanto bizzarro, i primi, frammentari, resti dell’Anomalocaris sono stati inizialmente classificati in modo molto confusionario, ed attribuiti a ben tre animali diversi: in particolare i primi resti delle due “antenne” frontali erano stati scambiati per la parte terminale di qualche crostaceo prestorico, da cui appunto il nome dell’animale: Anomalocaris significa infatti “gambero anomalo”. I fossili di questa creatura sono stati ritrovati principalmente in Canada, nel giacimento noto come Burgess Shale, uno dei migliori del mondo per quanto riguarda i fossili dei primi animali marini, ma altri resti suoi e di animali simili sono stati trovati anche negli Stati Uniti, in Groenlandia ed in Australia.

I motivi dell’estinzione dell’Anomalocaris, ed in generale di tutta la famiglia di antichi predatori a cui apparteneva, sono tutt’ora oggetto di discussione: potrebbe semplicemente essere stato uno dei tanti “esperimenti falliti” del periodo Cambriano, che è particolarmente famigerato fra gli studiosi per le sue forme di vita bizzarre, o essere stato spinto all’estinzione a causa della competizione con successivi predatori marini più evoluti, come gli scorpioni di mare o i primi cefalopodi.

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L’erbivoro Edaphosaurus, un rettile – mammifero

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Oggi torniamo ad occuparci di rettili, con il curioso erbivoro Edafosauro: un “rettile-mammifero” vissuto fra la fine del Carbonifero e la prima metà del Permiano, da circa 300 a 275 milioni di anni fa. Facilmente riconoscibile dalla grande “pinna” dorsale, questo rettile per il resto presentava una superficiale somiglianza con le iguane, ed è uno dei più antichi Vertebrati interamente erbivori che attualmente conosciamo.

Come già detto, Edafosauro faceva parte della famiglia dei Sinsapsidi, ossia i cosidetti “rettili-mammifero” da cui questi ultimi si svilupparono circa 200 milioni di anni fa. Edafosauro faceva parte in particolare del gruppo dei Pelicosauri, come il più noto Dimetron, che era invece un carnivoro: ancora ben lontani dall’assomigliare ai mammiferei, la caratteristica più distitiva di questi rettili era la pinna dorsale, che correva dalla base del collo a quella della coda, e che variava in forma ed estensione a seconda della specie. Essendo animali molto primitivi, ed a sangue freddo, si ritiene la vela fungesse da radiatore naturale: il rettile si posizionava al sole o all’ombra ed il sangue, passando attraverso la pinna si raffreddava o riscaldava più rapidamente, rendendo i Pelicosauri in grado di sopravvivere più facilmente in un’età del mondo in cui la Terra divenne eccezionalmente arida. E’ possibile inoltre che la pinna assumesse una colorazione vivace in certi periodi dell’anno, in modo da funzionare come efficace richiamo quando gli Edafosauri si mettevano alla ricerca di un partner per l’accoppiamento.

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edaphosaurus

Pinna a parte, la corporatura di Edafosauro, e dei Pelicosauri in genere, era notevolmente simile a quella dei varani o delle iguane: anche in termini di dimensioni, le sei specie di Edafosauro attualmente accettate dai paleontologi oscillavano fra l’1 ed i 3 metri di lunghezza, come appunto i Sauri viventi più grandi. Le differenze più notevoli erano la grossa coda, dove forse immagazzinava scorte di grasso, come fanno gli Elodermi, ed il ventre, molto largo per via della presenza di un apparato digerente molto voluminoso, adatto ad una dieta da erbivoro. Malgrado le dimensioni di tutto rispetto del corpo, questo rettile aveva una testa piuttosto piccola, dalla forma squadrata: la bocca presentava un gran numero di piccoli denti disposti in fitte “batterie”, adatti, di nuovo, ad un erbivoro. La conformazione di mascella e mandibola lascia anche pensare che fosse dotato di muscoli molto potenti, tanto che in passato si è ipotizzato che potesse anche nutrirsi di vegetali dal guscio duro e molluschi, sebbene attualmente gli studiosi lo ritengano poco probabile. Le specie più antiche di Edafosauro avevano una dentatura meno specializzata, e probabilmente si nutrivano regolarmente anche di insetti.

Come molti rettili-mammifero, l’Edafosauro, aiutato anche dal fatto che i continenti nel Permiano iniziarono a compattarsi per formare la gigantesca massa di terre emerse nota come Pangea (da cui anche la nostra rubrica prende il nome!), si è diffuso in molti angoli del pianeta: resti di questo animale sono stati ritrovati in varie parti del mondo, sebbene i fossili in condizioni migliori provengano dagli Stati Uniti, ed il particolare dal Texas. Si è probabilmente estinto a causa della competizione con altri rettili-mammifero erbivori apparsi in un secondo momento, quali i Dicinodonti: questi ultimi, più resistenti alle avverse condizioni climatiche ed in grado di mangiare praticamente ogni tipo di vegetazione con i loro grandi becchi, furono gli unici Sinsapsidi erbivori a sopravvivere alla grande estinzione di massa della fine del Permiano, ma furono poi a loro volta spinti all’estinzione nel successivo periodo Triassico, da nuovi cambiamenti climatici e dall’arrivo dei primi dinosauri erbivori.

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Sinraptor, il “predatore cinese”

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E’ tempo finalmente di parlare del “nostro” primo dinosauro carnivoro! E malgrado il nome faccia pensare a un predatore di piccola taglia, il Sinraptor era una bestia di tutto rispetto: lungo circa otto metri ed alto 3 o 4 in effetti era probabilmente uno dei più grandi cacciatori della sua regione.

Come già detto il nome Sinraptor può portare a fare confusione: tradotto in realtà significa “Predatore Cinese”, ed indica appunto la provenienza dell’animale (scoperto in Cina nel 1987) ed il suo ruolo nella catena alimentare. Vissuto circa 150 milioni di anni fa, alla fine del periodo Giurassico, era imparentato con Teropodi (i dinosauri carnivori, appunto) quali l’Allosauro americano, e doveva rivestire un ruolo analogo al suo nel mondo della Cina preistorica. A volte è classificato anche come Carnosauro primitivo, e quindi parte del gruppo di carnivori giganti discendenti degli Allosauri che “conquisteranno” Africa e Sud America nel periodo Cretaceo. Il suo aspetto era quello del tipico dinosauro carnivoro: grandi zampe posteriori muscolose, zampe anteriori corte, ma robuste e dotate di tre dita con artigli ad uncino, collo ad “s”, muso lungo ed irto di denti aguzzi.

Malgrado le somiglianze con animali quali l’Allosauro, il Sinraptor viveva in un ambiente diverso: la Cina del Giurassico era infatti meno arida del Nord America, cosa che facilitava la crescita di foreste temperate, ancora costituite per lo più di conifere, mentre invece il territorio in America era coperto in equal misura da foreste di piante secolari e vaste “savane” di felci e piante simili all’erba.

Il Sinraptor doveva quindi spostarsi in un ambiente quasi esclusivamente boschivo, ed era di costituzione più leggera rispetto alla media dei Teropodi americani, per muoversi più agilmente nel suo habitat: era comunque in grado di tenere testa ai grandi dinosauri erbivori che pure vivevano nella sua parte del mondo; sono stati infatti ritrovati molti resti fossili di Stegosauri e di Sauropodi (i grandi erbivori dal collo lungo) anche in Cina, sebbene affrontare simili colossi quasi certamente fosse un’impresa tentata di rado, e portata avanti da bande di più esemplari.

Sinraptor dinosauro

Per il resto del tempo, probabilmente il Sinraptor vagava per i boschi in solitudine, nutrendosi di prede più piccole, o di carcasse di animali morti per cause naturali, forte della sua grossa taglia, grazie a cui era in grado di scacciare Teropodi di dimensioni inferiori, fra cui, curiosamente, figuravano anche i primissimi Tirannosauridi, che all’epoca erano grandi in media meno della metà di questo cacciatore.

Come quasi tutti gli Allosauri ed i Carnosauri, Sinraptor non era dotato di un morso molto potente: come già detto si nutriva per lo più di animali notevolmente più piccoli di lui, che catturava tendendo loro agguati,  ma quando attaccava grandi prede la sua tattica doveva consistere nell’infliggere danni con assalti “mordi e fuggi” (letteralmente) per poi inseguire la vittima finché questa non fosse sufficentemente indebolita per poterla finire in tutta sicurezza. Se più esemplari si ritrovavano a cacciare insieme, magari in occasione dell’arrivo nel loro territorio di qualche grosso branco di erbivori impegnati in una migrazione, il comportamento adottato doveva essere più simile a quello che si vede nei coccodrilli o nei varani, che non a quello dei mammiferi.

Da quel poco che possiamo dire del cervello dei grandi dinosauri carnivori, sembra improbabile che riuscissero a cacciare in branchi organizzati, ma erano sicuramente in grado di sopportare la presenza di altri membri della loro specie, quando si trattava di sfruttare la forza del numero per abbattere qualche grossa preda. Una volta terminata la caccia però dovevano esserci violente dispute fra i vari animali per aggiudicarsi i bocconi di carne migliore, vista la mancanza di un ordiner gerarchico.

Il Sinraptor è anche la specie usata come “riferimento” per ricostruire l’unico grande Teropode scoperto in Italia, il Saltriosauro, dato che al momento possediamo pochissimi frammenti ossei di quest’ultimo, ma sembrano appartenere ad un Allosauro o ad un Carnosauro primitivo.

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Acanthostega, salamandra con la testa di pesce

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Gli anfibi ai giorni nostri non godono di grande popolarità: sono ben pochi gli appartenenti a questa categoria che riscuotono simpatia o interesse, essendo per la maggior parte creaturine viscide che vivono nell’acqua stagnante nutrendosi di insetti e detriti organici vari. Eppure gli anfibi sono forme di vita antichissime e che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione della vita sul nostro pianeta, essendo stati gli antenati dei rettili, da cui a loro volta deriveranno mammiferi ed uccelli, ed i primi Vertebrati in grado di vivere e respirare fuori dall’acqua. La creatura di cui parleremo oggi sarà uno di questi “pioneri” ancestrali: l’Acanthostega.

Vissuta circa 360 milioni di anni fa, questa curiosa creatura probabilmente sarebbe apparsa ad i nostri occhi come una sorta di salamandra con la testa di pesce: lungo circa mezzo metro era parte di un gruppo di animali intermedi che andavano da specie più simili ai pesci come Eustenopteron a grossi animali quali Ictiostega, che avevano tentato a più riprese di colonizzare le rive di mari poco profondi ed estuari di fiumi preistorici. Appartiene all’antica famiglia degli anfibi Labirintodonti, di cui è  in effetti uno dei primi rappresentanti.

Malgrado l’aspetto da salamandra, acanthostega era ancora ben lontano dall’essere adatto a vivere permanentemente fuori dall’acqua: la sua struttura ossea era ancora molto più simile a quella di un pesce che a quella degli anfibi a noi familiari. Era dotato sia di branchie che di polmoni e poteva quindi respirare sia dentro che fuori dall’acqua, ma la sua gabbia toracica e la spina dorsale non erano ancora abbastanza robuste da sostenere il peso del corpo fuori dall’acqua a lungo. Come molti pesci se privato per molto tempo del sostengo fornito dalla spinta idrostatica sarebbe morto schiacciato dal suo stesso peso, ragion per cui era anche più piccolo, e quindi più leggero, di altri Labirintodonti.

acantostega

Inoltre le sue zampe erano a dir poco rudimentali: quelle anteriori in particolare erano piccole, deboli e quasi del tutto prive di articolazioni; fuori dall’acqua l’acanthostega non sarebbe nemmeno stato in grado di camminare, ma avrebbe potuto al massimo strisciare spingendosi con la grossa coda e le zampe posteriori. Ogni zampa inoltre terminava con una struttura a raggiera di ben otto dita, quasi certamente palmate, che doveva apparire ben poco diversa dalle pinne dei pesci ossei. Muoversi fuori dall’acqua per questa antica creatura doveva insomma essere un’evento molto raro. Viene quindi sponteneo chiedersi… perché sviluppare zampe e polmoni se poi restavano quasi inutilizzate?

La risposta più semplice che possiamo dare è che l’evoluzione non lascia mai a lungo “spazi vuoti”: la terraferma all’epoca dell’acanthostega era ancora quasi deserta, salvo che per organismi quali muschi, muffe ed i primi insetti, mentre il mare ribolliva di vita. Semplicemente alcuni pesci, sia perché in cerca di nuovi territori che per sfuggire a predatori marini quali gli Euripteridi ed i Placodermi (di cui prima o poi parleremo) hanno iniziato a risalire i fiumi, adattandosi a vivere nelle acque dolci ed in specchi di acqua bassa, che spesso restavano asciutti in certi periodi dell’anno. Alcuni di questi pioneri hanno così sviluppato la capacità di respirare fuori dall’acqua, ed un’anatomia in grado di permettergli di sopravvivere abbastanza a lungo da poter trovare e raggiungere nuove pozze d’acqua, diventando poi con il tempo in grado di rimanere sulla terraferma sempre più a lungo. L’acanthostega era uno dei primi fra questi animali: dipendeva quasi totalmente dall’acqua per la sua sopravvivenza, ma poteva spostarsi fuori di essa quel tanto che bastava per trovare e raggiungere “pascoli più verdi” quando ciò si dimostrava necessario.

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Il mondo perduto dei grandi marsupiali australiani: il Thylacoleo

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L’Australia è la regione del pianeta più vicina al concetto di “mondo perduto” di cui a noi esseri umani piace tanto parlare in film e romanzi: rimasta tagliata fuori dal resto delle terre emerse poco dopo l’estinzione dei dinosauri, la vita in questa grande isola ha seguito percorsi evolutivi tutti suoi, che hanno visto varie specie di animali che nel resto del pianeta si sono estinte, o sviluppate in modo diverso, espandersi e prosperare: fra queste i più famosi sono certamente i mammiferi Marsupiali. Quasi del tutto sconfitti e condannati all’estinzione dalla competizione con i più adattabili mammiferi Placentati, l’Australia è la loro grande roccaforte e nel corso delle ere i Marsupiali australiani si sono sviluppati in forme a volte bizzarre, a volte sorprendentemente simili a quelle di animali a noi familiari. Oggi ad esempio parleremo del Thylacoleo, ossia un marsupiale predatore che presentava incredibili parallelismi con i grandi felini, quali il leone.

Il Thylacoleo fu l’ultimo ed il più grande di una famiglia di marsupiali carnivori imparentati con i canguri, esistita fino a poche decine di migliaia di anni fa: se ne conoscono diverse specie, di cui le più grandi erano effettivamente delle dimensioni dei grandi felini predatori a noi familiari. Malgrado il nome, il loro aspetto ricordava forse più quello delle iene o degli orsi: erano animali tozzi, dal muso corto e con lunghe zampe anteriori, quelle posteriori erano invece corte e muscolose.

La testa del Thylacoleo somigliava vagamente a quella di un felino; arrotondata e robusta, era dotata di potenti muscoli grazie a cui poteva certamente frantumare anche le ossa. Era dotato di denti affilati, ma la cosa curiosa era che le “zanne” in questi animali non erano i canini, come nei canidi e nei felidi, ma bensì gli incisivi: tutta la dentatura dell’animale comunque era strutturata per infliggere il massimo dei danni sulle carni di qualsiasi creature fosse così sfortunata da incrociare la strada del Thylacoleo.

thylacoleo

Le zampe anteriori erano curiosamente simili a quelle delle scimmie, o alle nostre, sia in termini di forma che di mobilità, ma erano ovviamente dotate di una muscolatura molto più massiccia, ed aiutavano parecchio questo predatore a ridurre all’impotenza le sue prede: le dita delle zampe erano in grado di muoversi più agilmente che negli altri mammiferi carnivori   ed il pollice non solo non si era atrofizzato, ma era molto mobile e dotato di un grande artiglio falciforme, utile sia per infliggere ulteriori danni alle prede che per arrampicarsi sui tronchi degli alberi.

Durante il regno del Thylacoleo l’Australia era molto diversa da come la conosciamo: il clima era più umido e permetteva la crescita di foreste e praterie, che a loro volta rendevano possibile l’esistenza di grandi marsupiali erbivori, alcuni dei quali delle dimensioni di un ippopotamo (!), i quali a loro volta erano naturalmente la riserva di cibo primaria del Thylacoleo e di altri predatori giganti, fra cui canguri carnivori e varani lunghi più del doppio del famigerato drago di Komodo.

Con il finire delle glaciazioni il clima australiano si fece però più secco, portando rapidamente alla desertificazione dell’entroterra, e alla scomparsa dei grandi animali da preda, e quindi dei loro predatori: questa è quasi universalmente ritenuta la ragione della scomparsa dei grandi marsupiali carnivori.

Un’ulteriore colpo di grazia potrebbe essere stato l’arrivo nel sub-continente australiano dei primi uomini, e con loro dei cani, poi rinselvatichiti ed evolutisi nei Dingo: intelligenti, adattabili ed in grado di riprodursi molto rapidamente, questi predatori avrebbero tolto agli ultimi leoni marsupiali il poco spazio rimasto all’apice della catena alimentare, condannandoli definitivamente all’oblio. Le ultime varietà di marsupiali predatori, notevolmente più piccole del Thylacoleo, saranno poi quasi completamente spazzate via dai colonizzatori europei in tempi molto più recenti.

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Nigersauro, il “piccolo” brucatore dell’Africa preistorica

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Quando pensiamo alla parola “dinosauro” niente ci balza più rapidamente alla mente dei Sauropodi, i famigerati “colli-lunghi” erbivori, che non mancano mai di fare la loro comparsa in film, racconti o cartoni animati a tema preistorico. Nel corso degli anni però gli scienziati hanno scoperto diverse specie bizzarre o comunque uniche anche di questa varietà di dinosauri, che si allontanano non poco dall’immagine popolare che abbiamo di queste creature. L’animale di cui parleremo oggi, il Nigersauro è uno di questi.

Come già ci dice chiaramente il nome, stiamo parlando di un dinosauro africano, scoperto nella Repubblica del Niger, più precisamente nella regione del Gadoufaoua: vissuto circa un centinaio di milioni di anni fa, in pieno periodo Cretaceo, la sua taglia oscillava fra i 9 ed i 15 metri di lunghezza, una buona parte dei quali però costituti dal collo e dalla coda (più dalla seconda che dal primo, come vedremo) e la massa totale dell’animale non raggiungeva quella di un elefante. Rispetto a suoi “parenti” più celebri quali l’Apatosauro o il Diplodoco era quindi un Sauropode di “piccola” taglia.

Il Nigersauro faceva parte di gruppo noto come Rabbachisauridi: questi erano gli ultimi discendenti della famiglia dei Diplodocidi, che erano stati i Sauropodi di maggior successo e diffusione nel precedente periodo Giurassico, ma che hanno poi perso gradualmente terreno rispetto ai Sauropodi del gruppo Macronaria, comprendenti Brachiosauri e Titanosauri, fino al punto di estinguersi completamente diversi milioni di anni prima della scomparsa definitiva dei dinosauri. I Rabbachisauridi hanno costituito un ultimo disperato tentativo della famiglia del Diplodoco di restare, per così dire, al passo con i tempi, e presentano una serie di adattamenti unici, mai riscontrati in altri Sauropodi.

Nigersauro

Nel caso del Nigersauro, la cosa che balza subito all’occhio è il collo, visibilmente accorciato rispetto alla medie della sua famiglia, sebbene comunque molto robusto e mobile, e più simile a quello degli erbivori Ornitopodi, quali gli Iguanodonti. Non dovendo controbilanciare un lungo collo come in molti altri Sauropodi, anche la coda si era significativamente accorciata, anche se non in modo così “drammatico”.

In generale il Nigersauro aveva un aspetto molto più tozzo dei suoi antenati del Giurassico, ma la cosa che lo rende davvero unico è la testa: la parte superiore del cranio è simile a quella dei Diplodocidi, ma il muso è molto più largo ed ha una forma a paletta, completata da un vera e propria trafila di denti minuscoli, ma molto robusti. Una struttura dentaria definita “a batterie” e, di nuovo, riscontrata solo in dinosauri erbivori quali gli Ornitopodi, che dimostra come questo animale stesse tentando di adattarsi ad una dieta diversa rispetto a quella dei Sauropodi del Giurassico: questi si nutrivano prevalentemente di felci e conifere, ed erano dotati di una dentatura “a pettine” fatta appunto per filtrare ed intrappolare aghi e foglioline nella loro bocca, piuttosto che a strappare e sminuzzare vegetazione a foglia larga, più comune nel Cretaceo (epoca in cui hanno fatto la loro comparsa le Angiosperme, ossia le piante da fiore). La testa del Nigersauro poteva apparire grottesca, ma lo rendeva sicuramente molto efficente quando era il momento di nutrirsi.

Le “piccole” dimensioni del Nigersauro lo rendevano un brucatore, in grado di nutrirsi di piante basse e a crescita rapida, e ovviamente gli richiedevano meno quantità giornaliere di cibo per sopravvivere, cosa che era un grande vantaggio nella già arida Africa preistorica. Tuttavia era anche molto più vulnerabile agli attacchi dei grandi coccodrilli e dei Carnosauri predatori vissuti nella sua stessa epoca. Forse per ridurre tali minacce si muoveva in branchi misti con Ornitopodi erbivori, o con Sauropodi di dimensioni maggiori, cercando sicurezza nei grandi numeri.

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Metriorinco, il coccodrillo marino del Giurassico

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I coccodrilli sono fra i più famosi esempi di “fossili viventi” ancora a piede libero nel mondo: creature antiche e misteriose che sono cambiate poco e niente nel corso delle ere, perché già così perfettamente adattate al loro ambiente da non avere necessità di evolversi in forme più raffinate. Delle oltre venti specie di coccodrilli tutt’ora viventi quella più grande e più tristemente famosa per la frequenza degli attacchi all’uomo è il coccodrillo australiano di acqua salata, noto anche come “coccodrillo marino”, perché in grado si sopravvivere nell’acqua di mare più a lungo degli altri suoi simili. Ma la paleontologia riserva sempre grosse sorprese: l’animale di cui parliamo oggi infatti è uno dei veri coccodrilli marini, il Metriorinco.

Il Mesozoico, l’epoca del mondo in cui i Dinosauri sono stati la forma di vita dominante, è spesso soprannominata anche “l’Era dei Rettili”, questo perché allora tutte le famiglie di rettili, estinte o tutt’ora viventi, hanno raggiunto un grado di diffusione e diversificazione mai visto prima, ed i coccodrilli non fecero eccezione: comparsi circa 200 milioni di anni fa, più o meno in contemporanea ai loro “cugini” dinosauri, originariamente i coccodrilli vantavano una varietà di specie davvero notevole; oltre alle specie anfibie, le più versatili e le uniche in grado di sopravvivere alla grande estinzione K-T, c’erano anche varietà di coccodrilli completamente terrestri, ed altre che si erano adattate a vivere permanentemente in mare, in modo analogo a come hanno fatto i Cetacei milioni di anni dopo.

metriorinco

I coccodrilli marini mesozoici si dividevano in due famiglie: i Teleosauridi, meno specializzati, ed i Metriorinchidi appunto, che si erano evoluti in animali marini a tal punto da vantare un grado di specializzazione pari a quello dei delfini e delle balene. Il Metriorinco era lungo fra i due ed i tre metri, come molte specie di coccodrilli contemporanei, ma a parte questo i punti in comune con le varietà a noi note sono veramente pochi. Il corpo dell’animale era molto affusolato ed idrodinamico, la coda tozza e muscolosa terminava in una pinna verticale, e le zampe palmate erano diventate a loro volta vere e proprie pinne. Quelle posteriori erano notevolmente più lunghe e muscolose di quelle anteriori, a differenza di quanto accadde nei Cetacei e negli Ittiosauri, dove nel corso delle generazioni si atrofizzarono fino a scomparire o quasi, ed è quindi probabile che contribuissero in modo attivo al nuoto. Sembra inoltre che i Metriorinchi avessero una pelle grabra, liscia, anziché corazzata e ricca di punte ossificate (i cosiddetti osteodermi) in modo da essere ancor più idrodinamici. Malgrado come già detto fossero ancora dotati di tutte e quattro le zampe, il grado di specializzazione di questi animali lascia pensare che probabilmente non tornassero sulla terra nemmeno per riprodursi, e che partorissero i piccoli in acqua.

La testa del Metriorinco era relativamente corta e tozza, ma comunque dotata di una dentatura “a pettine” in grado di trattenere pesci e piccoli animali marini, che erano quasi certamente il suo cibo preferito. Vissuto nel Giurassico, circa 150-140 milioni di anni, nel periodo d’oro dei rettili marini, condivideva l’habitat con svariate altre creature acquatiche come gli ittiosauri, ancor più simili ai delfini, i plesiosauri dal lungo collo ed i giganteschi pliosauri predatori, di cui probabilmente era occasionalmente vittima. Come tutte le varietà di animali sopraelencati il suo habitat preferenziale erano i mari caldi e poco profondi che coprivano l’Europa ed alcune parti delle americhe, e si estinse probabilmente a causa della scomparsa di questi ultimi in seguito alla deriva dei continenti ed alle variazioni del livello del mare.

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Platibelodonte, un elefante anfibio?

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Anche se oggi rimangono solo due specie di Proboscidati, o elefanti che dir si voglia, la loro è una delle famigli di grandi mammiferi erbivori fra le più antiche e di maggior successo nella storia del nostro pianeta: mammuth, elefanti “nani”, mastodonti, ed una gran varietà di Proboscidati primitivi simili a tapiri o ad ippopotami sono solo alcuni dei possibili esempi. Inutile dire che un gruppo così diffuso, nel corso del tempo ha dato vita anche ad alcune creature davvero bizzarre ed interessanti. Come l’animale di cui parleremo oggi, il Platibelodonte.

Questo grande mammifero ancora oggi suscita una grande curiosità fra studiosi ed appassionati: il suo corpo arrotondato e massiccio è quello tipico degli elefanti, ma la sua testa è un qualcosa di mai visto: dalla mascella inferiore infatti partivano due lunghe zanne piatte, che andavano a formare una struttura “a pala”. Anche la parte superiore del cranio era più allungata del solito, ed in più presentava la classica cavità nasale allargata che fungeva da base per la proboscide. Considerando che i tessuti molli di questo animale non si sono conservati, nemmeno in forma di impronta, il Platibelodonte è considerato da molti un vero rompicapo: come doveva apparire in vita e a che cosa serviva la sua “pala” ossea?

Le ricostruzioni classiche dell’animale lo immaginano come una creatura che conduceva uno stile di vita anfibio: la sua testa bizzarra in questo contesto avrebbe infatti senso, perché potrebbe essere usata come draga per scavare i fondali fangosi di fiumi e paludi e per sradicare in modo rapido e veloce la vegetazione locale. Dopodiché il Platibelodonte grazie alla proboscibe, modificata per fungere da labbro estremamente mobile e coprire la pala ossea sottostante, spingeva il cibo in gola. Ricostruzioni alternative tuttavia sono state proposte negli anni ’90, e vedono il Platibelodonte come un animale terrestre, dotato di una proboscide più sviluppata e disgiunta dalla bocca. In questa seconda teoria si immagina che l’animale di nutrisse di vegetazione coriacea che raggiungeva con la probiscide e che poi tagliava con le grandi zanne piatte, che in effetti erano degli enormi incisivi modificati ed erano quindi adatti allo scopo. Questa nuova versione del grande erbivoro è oggi quella più accettata, ed è quella su cui si basa l’illustrazione che accompagna questo articolo.

Platibelodonte

Al di là della forma bizzarra della parte inferiori del capo, per il resto il Platibelodonte era un proboscidato abbastanza tipico: la sua taglia era quella degli elefanti a noi contemporanei ed era anche dotato di altre due corte zanne, che forse avevano forme e dimensioni diverse nei due sessi, come accade nei pachidermi a cui siamo abituati. Quale che sia la funzione della sua strana testa questo animale è stato un erbivoro di un certo successo: se ne conoscono circa una quindicina di specie, vissute in Europa ed Asia, e persino in America, dove non era presente, c’erano comunque altri pachidermi che avevano sviluppato strutture analoghe alla pala del Platibelodonte: insomma, anche se a noi può apparire una bizzarria evolutiva in realtà la sua specializzazione doveva avere un senso ed un’utilità da non sottovalutare! Almeno per un certo periodo di tempo. Si estinse comunque alcuni milioni di anni prima della comparsa dell’Uomo, ma visse abbastanza a lungo per imbattersi nei primi grandi felini dai denti a sciabola, che forse gli davano occasionalmente la caccia.

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Hesperornis, il grande “pinguino” del tardo Cretaceo

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Al giorno d’oggi gli uccelli più specializzati a vivere in un ambiente costiero sono i pinguini: compatti, con una forma idrodinamica, un piumaggio che ha la duplice funzione di ridurre ulteriormente la resistenza dell’acqua durante il nuoto e di tenerli isolati dalle basse temperature, più vari altri adattamenti. Animali simili sono naturalmente il frutto di una lunga evoluzione, ma solo perché sono il miglior esempio di uccelli marini che abitano il mondo ai giorni nostri, non significa certo che siano stati gli unici a tentare una simile strada. L’animale di cui parleremo oggi infatti è un altro uccello marino: l’antichissimo Hesperornis.

Vissuto circa ottanta milioni di anni fa, alla fine dell’era dei dinosauri, questo antico pennuto era perfettamente adattato ad un ambiente marittimo: come i pinguini era del tutto incapace di volare, ma a differenza di questi ultimi, in cui le ali si sono trasformate in “timoni” naturali, l’Hesperornis presentava un’atrofia degli arti superiori quasi totale; solo poche ossa vestigiali, pressoché inutili, e forse nemmeno visibili nell’animale quando era in vita. Il corpo era allungato ed affusolato, dalla forma idrodinamica, testa e collo erano simili a quelli dei cormorani o delle sule, ma il becco di questo uccello primitivo era ancora dotato di denti, ereditati dagli antenati Teropodi, che però erano disposti “a pettine” in modo analogo a quanto accade in molti rettili estinti e non, che si siano specializzati in una dieta ittiofaga: si tratta di una dentatura adatta ad infilzare pesci ed invertebrati, piuttosto che a lacerare la carne o a trattenere grandi prede.

14-hesperornis

L’adattamento più notevole ad una vita marina dell’Hesperornis comunque erano le sue zampe posteriori: grandi, lunghe e muscolose rendevano l’animale un nuotatore eccezionale, ma al tempo stesso le articolazioni di queste ultime a livello del bacino rendevano questo uccello preistorico virtualmente incapace di camminare o anche solo di ergersi dritto sulle zampe. Questo significa che molto probabilmente l’Hesperornis viveva tutta la sua vita in mare, tornando a terra solo per nidificare, o per sfuggire ai predatori, e che anche allora poteva spostarsi a terra solo strisciando sul ventre e spingendosi con le zampe, similmente a come fanno le tartarughe marine quando si recano sulle spiagge tropicali per deporre le uova.

L’Hesperornis è stato un animale di grande successo e diffusione: se ne conoscono 8-9 specie ufficialmente riconosciute dai paleontologi, la maggior parte trovate nei territori centrali degli Stati Uniti d’America, che ottanta milioni di anni fa erano il fondale di un grande mare interno ricco di vita. La specie più grande era lunga un metro ed ottanta, e pesava quanto un uomo di media stazza, ma nonostante le dimensioni era molto probabilmente tanto spesso preda quanto predatore, dato che nei mari in cui viveva erano ancora abbondanti grandi rettili marini quali plesiosauri e mosasauri, ed occasionalmente anche grandi coccodrilli arrivavano dai fiumi dell’entroterra ed andavano in cerca di prede al largo. L’estinzione di questa famiglia di uccelli è quasi certamente da imputare all’abbassamento dei livelli del mare, che ha causato la scomparsa dei mari caldi e poco profondi che erano il loro habitat preferenziale.

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Estemmenosuco, una “testa terribile” del Permiano

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Abbiamo già parlato in precedenza dei cosiddetti “rettili-mammiferi”, ossia di quella grande categoria di vertebrati terrestri da cui discesero i nostri remoti antenati dotati di pelliccia. Oggi torniamo a vedere un esponente di questa famiglia, il curioso Estemmenosuco.

Vissuto circa 250 milioni di anni fa, nella seconda metà del periodo Permiano, l’Estemmenosuco era parte di una famiglia di grandi rettili noti come Dinocefali (“teste terribili”) per motivi piuttosto facili da capire: quasi tutti i rappresentanti di questo gruppo erano dotati di bizzarre formazioni ossee simili a corna sul cranio, la cui funzione è tutt’ora oggetto di dibattito; ad una prima occhiata infatti viene da pensare che simili strutture avessero un’ovvia funzione offensiva e venissero usate in combattimento contro i predatori o in scontri per la conquista del territorio o di un partner, ma le “corna” dell’Estemmenosuco, e dei Dinocefali in genere, non erano “inerti” e separate dal resto del corpo, come accade nei rinocerto ad esempio, ma ossa vive, parte integrante del cranio, come nei dinosauri cornuti, e quindi come in questi ultimi probabilmente svolgevano una funzione passiva, facendo sembrare gli animali più minacciosi agli occhi dei rivali e più “attraenti” a quelli di potenziali partner. Alcuni fossili un tempo considerati appartenenti a specie diverse di Dinocefali, con “corna” meno sviluppate, sono stati in effetti riclassificati come esemplari di Esteemmenosuco di sesso o età differenti rispetto a quelli con la configurazione più comune, poiché è ragionevole pensare che se tali strutture non avevano funzioni attive solo il sesso dominante ne fosse dotato, o comunque ne avesse una versione più sviluppata.

estemmenosuco

Gli esemplari più grossi di Estemmenosuco avevano la taglia di un grosso bovino ed avevano quindi necessità di ingerire considerevoli quantità di cibo: non è però del tutto chiaro quale fosse la dieta di questo animale, poiché la dentatura frontale, in particolare gli incisivi ed i canini, erano allungati ed appuntiti, come nei predatori, ma la dentatura laterale era piccola e squadrata, come negli erbivori. E’ quindi difficile determinare se  questa antica creatura fosse un cacciatore o una preda. La configurazione dentaria “ibrida” potrebbe significare che l’Estemmenosuco, vivendo in un habitat arido e dove era assai difficile reperire qualsiasi tipo di nutrimento, avesse uno stile di vita simile a quello degli orsi, ossia che si nutrisse perlopiù di piante, ma che non disdegnasse di approffitare della sua grossa taglia per reclamare carcasse di altri animali o forse persino che occasionalmente cacciasse in modo attivo. E’ anche possibile che la sua dentatura  fosse il risultato di una specializzazione a nutrirsi di un qualche tipo di pianta dal fusto coriaceo, che strappava e spezzava con le zanne anteriori.

I resti di questo animale sono stati rinvenuti in Russia, principalmente in depositi di sedimenti di origine fluviale. Questo ha portato i paleontologi in passato a considerare un’altra possibile spiegazione all’aspetto dell’Estemmenosuco: ancora oggi c’è chi sostiene che conducesse uno stile di vita anfibio simile a quello dell’ippopotamo, che pure ha grandi zanne dall’aspetto minaccioso, malgrado si nutra quasi esclusivamente di vegetazione. Potrebbe però trattarsi solo di una coincidenza e che i resti di Estemmenosuco rinvenuti in questo tipo di sedimenti appartenessero ad animali travolti da una piena: un’occorrenza molto favorevole alla formazione di resti fossili, e più volte documentata come causa della formazione di grandi accumuli di ossa di animali preistorici. Lo stile di vita di questo grande rettile rimane insomma, almeno per ora, un mistero ancora lungi dall’essere risolto.

Leggi l’E – book sui dinosauri di Andrea Maraldi

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Crilofosauro: il carnivoro piumato dell’Antartide

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Sentiamo spesso dire nei documentari che i dinosauri sono vissuti in ogni angolo del globo, ma essendo ancora abituati a pensarli come gigantesche “lucertole” bipedi, restiamo stupiti da alcuni ritrovamenti effettuati a latitudini estreme. E’ il caso ad esempio dell’animale che vedremo oggi: il Crilofosauro, ritrovato nientemeno che in cima ad una montagna in Antartide!

Il Crilofosauro era un antico dinosauro carnivoro vissuto all’inizio del periodo Giurassico, circa 200 milioni di anni fa: se ne conosce al momento un solo fossile, vista l’ovvia difficoltà legata alla ricerca di fossili nelle regioni polari, piuttosto incompleto, ma comunque in sufficiente stato di conservazione da darci una buona idea dell’aspetto dell’animale. Lungo circa sei metri ed alto due era un predatore slanciato ed agile, e pur essendo ben lontano dalla stazza poi raggiunta dai dinosauri carnivori vissuti dopo di lui, all’epoca in cui questo predatore si aggirava per il mondo non c’erano ancora molti erbivori giganti e la sua taglia lo rendeva comunque uno degli animali più grossi che si aggiravano nel suo territorio. Come molte Teropodi primitivi era dotato di una cresta ossea dalla forma curiosa: quella del Criolofosauro sembrava uno strano “ciuffo” o ricciolo che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “Elvis-sauro”. Troppo leggera e fragile per avere qualsivoglia funzione offensiva era quasi certamente relegata ad una funzione di display, e veniva esibita in rituali come il corteggiamento.

crilosofauro

Vista la scarsità di resti fossili, la classificazione del Criolofosauro è incerta: le dimensioni e le forme del corpo lo avvicinano a carnivori primitivi quali il più famoso Dilofosauro, ma la forma della testa in passato ha portato anche ad ipotizzare che sia un remoto antenato di predatori quali l’Allosauro, sebbene questa teoria sia al momento quella meno condivisa. E’ difficile che questa controversia venga risolta a meno che non si recuperino resti fossili più completi, in particolare del cranio.

L’Antartide all’epoca del Crilofosauro era molto diverso da come lo conosciamo: il super-continente Pangea si era da poco frammentato e la massa di terra che sarebbe diventata l’Antartide non era ancora così al Sud come lo è ora. Le temperature tuttavia dovevano scendere notevolmente anche allora, almeno per alcuni mesi l’anno, ed è ragionevole pensare che questo dinosauro fosse abituato a vedere la neve, e che si aggirasse in foreste e pianure di tipo temperato, piuttosto che in un ambiente simile alla giungla, come siamo invece abituati a pensare che facessero tutti i dinosauri. Viste le temperature relativamente basse con cui si trovava ad avere a che fare è possibile che il Crilofosauro fosse coperto in parte o del tutto da proto-piume simili a peli, che lo aiutavano a mantenersi caldo: sappiamo infatti quasi per certo che tali strutture si sono sviluppate nei dinosauri Teropodi fra la fine del Triassico e l’inizio del Giurassico, quello che è ancora da scoprire è se fossero già presenti nei carnivori più primitivi, o se si siano originate nei primi predatori più avanzati. Di certo è facile immaginare che questi animali, che vivevano in territori dove le temperature si abbassavano quasi sotto lo zero, avessero bisogno di un qualche sistema per la conservazione del calore nei periodi più freddi dell’anno, quindi anche se al momento non è dimostrabile la presenza di piumaggio nel Crilofosauro, è sicuramente possibile che ne fosse dotato, ammesso che tale adattamento si fosse già presentato nei suoi antenati del Triassico.

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L’Elicoprione

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Sentiamo spesso dire nei documentari o nelle pubblicazioni scientifiche che gli squali e gli altri pesci cartilaginei siano fra gli animali acquatici di maggior successo nella storia del nostro pianeta e che non siano cambiati molto poco nel corso delle ere: un discorso del resto simile a quello che già abbiamo visto essere spesso fatto per i coccodrilli. Naturalmente però si tratta di una semplificazione ed i paleontologi sono a conoscenza di un gran numero di pesci selaci a dir poco curiosi. Oggi parliamo di uno di questi, l’Elicoprione.

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Innanzitutto, c’è da dire che purtroppo non abbiamo molti reperti fossili di questa creatura: avendo, come dice il loro stesso nome, uno scheletro composto quasi interamente da strutture cartilaginee, è estremamente raro imbattersi in resti completi di qualsiasi Selace, si tratti di squali, razze o chimeriformi. Non siamo nemmeno completamente sicuri se l’Elicoprione fosse uno squalo preistorico, o un chimeriforme che ha sviluppato un’anatomia simile a causa di processi di evoluzione parallela, sebbene quest’ultima sia la teoria che va per la maggiore. Come quasi tutti i pesci cartilaginei questa specie ha avuto un notevole successo ed è esistita molto più a lungo della maggior parte delle specie animali che vivono fuori dagli oceani: i primi resti dell’Elicoprione risalgono a circa 300 milioni di anni fa, alla fine del periodo Carbonifero  e gli ultimi alla metà del periodo Triassico, più di cento milioni di anni dopo. Resti di questo pesce e di suoi “parenti stretti” sono stati scoperti in Australia, Cina e Nord America.

Da quello che siamo riusciti ad estrapolare dai pochi fossili in nostro possesso, e studiando quelli di animali appartenenti alla stessa famiglia, si pensa che l’Elicoprione potesse raggiungere le dimensioni dello squalo tigre attuale, con una lunghezza compresa fra i due metri e mezzo ed i quattro metri, e che il suo corpo presentasse una marcata somiglianza sempre con gli squali attuali. La caratteristica che lo rende un animale tanto strano e curioso ai nostri occhi è ovviamente la bocca, con la sua apparentemente assurda spirale di denti nella mascella.

La spirale di denti dell’Elicoprione è una delle poche parti dell’animale di cui abbiamo resti fossili in buone condizioni: per anni gli studiosi non sono stati nemmeno sicuri di dove fosse collocata nella testa del pesce, e meno che meno sono stati in grado di spiegarne la presenza ed il funzionamento. Questo ingombrante apparato boccale comunque doveva essere sorprendentemente funzionale, perché non solo, come abbiamo già detto, il genere Helicoprion è stato estremamente longevo, ma conosciamo diversi altri pesci cartilaginei con strutture simili. Fra le teorie avanzate riguardo la funzione della spirale una immagina l’Elicoprione come un predatore durofago, ossia specializzato nel dare la caccia a prede dotate di un guscio o di un esoscheletro coriaceo, quali i nautiloidi ed i trilobiti: secondo questo scenario la spirale di denti si andava ad “incastrare” nel palato dell’animale, contro altri denti lì posizionati, agendo come una mola e frantumando i gusci delle prede. Altri paleontologi sono convinti che i  denti fossili in nostro possesso non presentino segni di usura così estesi da giustificare una tale teoria, ed optano invece per uno scenario diametralmente opposto, sostenendo che l’Elicoprione prediligesse calamari ed altri invertebrati “molli”, che venivano ridotti a brandelli, facilitando la digestione. Vista la velocità con cui gli squali, ed i pesci cartilaginei in genere, sono in grado di rimpiazzare denti vecchi o rotti, non si può escludere nessuno dei due scenari.

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L’ilonomo

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Alcuni dei capitoli più importanti della storia natural del nostro pianeta si sono svolti, per così dire “in sordina”: mentre creature enormi o persino inquietanti dominavano la catena alimentare, altre creature, apparentemente piccole ed insignificanti facevano la loro comparsa, vivendo nell’ombra, sopravvivendo grazie a caratteristiche uniche che un domani li renderanno i loro discendenti i nuovi dominatori del mondo. Il caso classico a cui spesso pensiamo è quello dei piccoli mammiferi che vivevano ai tempi dei dinosauri, ma oggi guarderemo ancora più indietro, parlando di dell’Ilonomo, il più antico rettile conosciuto.

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I rettili hanno fatto la loro comparsa durante il periodo Carbonifero, un’era in cui la terra era coperta quasi integralmente da foreste e giungle, e durante cui i livelli di ossigeno e vapore acqueo nell’atmosfera terrestre raggiunsero livelli record, favorendo la proliferazione di anfibi ed invertebrati, alcuni dei quali, come l’Artropleura di cui già abbiamo parlato, divennero veri e propri giganti. Spinti dall’impulso biologico di espandersi e conquistare nuovi habitat, molti anfibi iniziarono a sviluppare meccanismi che gli consentissero di passare periodi di tempo sempre maggiori fuori dall’acqua: conosciamo diversi “proto-rettili” precedenti all’Ilonomo, come la Westlothiana, che già presentavano la stuttura scheletrica tipica dei rettili, ma che quasi certamente erano ancora legati all’acqua almeno per la riproduzione. L’Ilonomo è invece il più antico rettile “autentico” attualmente noto alla scienza: vissuto circa 315 milioni di anni fa, a prima vista non era niente di speciale, avendo l’aspetto e le dimensioni di una comunissima lucertola, sebbene all’occhio attento degli studiosi non siano sfuggite diversi indizi che ci dimostrano quanto antico ed ancora primitivo fosse questo animale.

Innanzitutto la testa: era più piccola rispetto al corpo di quanto accade nei rettili successivi, e la conformazione delle ossa del cranio e del collo sembrano indicare che, anche per un animale così piccolo, avesse una muscolatura boccale molto debole, cosa che, unita al fatto che avesse una dentatura molto poco sviluppata o specializzata (solo una fila di piccoli dentini conici), ci suggerisce che l’Ilonomo si nutrisse per lo più di larve o invertebrati di dimensioni molto ridotte, evitando libellule, millepiedi o altri grossi artropodi dotati di esoscheletri coriacei. In un’altra epoca avrebbe potuto nutrirsi anche di frutta e residui organici di origine vegetale, ma trecento milioni di anni fa ancora le piante da fiori e frutti non esistevano. Doveva quindi essere un’opportunista, che si muoveva fra la fitta vegetazione addentando qualsiasi creatura più piccola e fragile di lui che incrociasse il suo sentiero. Essendo uno dei primi veri rettili deponeva uova dal guscio duro, e che non necessitavano di essere lasciate in acqua, consentendogli di “nidificare” nei tronchi degli alberi o in altri luoghi molto difficilmente accessibili ai predatori dell’epoca, cosa che ha garantito a questo piccolo ed estremamente vulnerabile animaletto una copiosa discendenza. Fortunatamente la vita arboricola ha anche favorito la fossilizzazione di questi minuscoli animali, che a volte restavano intrappolati nei tronchi cavi degli alteri in cui vivevano conservandosi in modo quasi perfetto.

Quando verso la metà del Carbonifero la terra ha iniziato ad inaridirsi e le foreste paludose regno di anfibi ed invertebrati hanno cominciato a ritirarsi la capacità dei primi rettili come l’Ilonomo di sopravvivere con ristrette quantità d’acqua ed ossigeno, e persino di non dipenderne per la riproduzione ha capovolto i precedenti equilibri naturali: nel giro di pochi milioni di anni i rettili si sono diversificati e sono cresciuti in numero e dimensioni in modo esponenziale, diventando la forma di vita dominante e gettando le basi per la nascita anche dei mammiferi e degli uccelli, che a loro volta, molto tempo dopo erediteranno la Terra quando anche l’era dei rettili giunse alla fine.

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Il Notronico

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Già due volte abbiamo parlato di Teropodi, ossia di dinosauri carnivori: in assoluto la prima varietà di dinosauri ad essere comparsa sul pianeta, ed indubbiamente quella di maggior successo (nonché l’unica che esiste ancora, se consideriamo gli Uccelli). Quando pensiamo ai dinosauri predatori naturalmente abbiamo due immagini che compaiono immediatamente nella nostra mente, i titanici tirannosauri o gli agili e letali “raptor”, oggi però parleremo di uno dei membri di questa famiglia che in assoluto si allontana di più dallo stereotipo del “cacciatore preistorico”: il Notronico.

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Il Notronico è l’unico rappresentante americano conosciuto della famiglia dei Therizinosauridi, l’unica varietà di Teropodi attualmente conosciuta ad aver abbandonato la dieta carnivora e ad essere divenuti erbivori. Già questo sarebbe sufficente a rendere il Notronico ed i suoi parenti una vera stranezza, ma anche a livello anatomico si trattava di creature a dir poco uniche: dotato di un lungo collo simile a quello dei Sauropodi, di una piccola testa munita di un becco simile a quella degli Ornitopodi come l’Iguanodonte, e di lunghe zampe anteriori culminanti in lunghi artigli ricurvi, il Notronico può sembrare più una specie di bizzarro “puzzle” ottenuto assemblando alla meno peggio resti parziali di varie specie di dinosauro, ma disponiamo di due fossili abbastanza completi, e provenienti da due diverse località che ci confermano che era un animale reale, per non parlare dei ritrovamenti di fossili dei suoi altri “parenti” Therizinosauridi scoperti in Asia, dove questa varietà di Teropodi era più diffusa.

In termini di dimensioni, il Notronico era un dinosauro di media grandezza, lungo 5-6 metri ed alto quasi il doppio di un essere umano di statura media e probabilmente dal peso di una tonnellata circa. I fossili dell’animale sono stati trovati in Utah ed in New Mexico, e risalgono a circa 90 milioni di anni fa: nell stesse zone sono stati trovati molti altri dinosauri fra cui alcuni predecessori di tirannosauri e ceratopi (Zuniceratops e Zunityrannus) e varie specie di Ornitopodi e di “raptor”, con cui condivideva l’habitat.

Pur non essendo particolarmente enorme per essere un dinosauro, il Notronico non doveva essere un animale molto agile, le sue zampe posteriori erano infatti piuttosto corte in proporzione al resto del corpo: è stato ipotizzato che fosse una delle poche varietà di grossi erbivori a non compiere migrazioni stagionali, e che avesse uno stile di vita paragonabile a quello degli orsi o dei panda, passando gran parte della vita da solo o in piccoli nuclei familiari, sebbene naturalmente non ci sia modo di verificarlo adeguatamente.

I lunghi artigli delle “braccia” del Notronico sarebbero serviti per scorticare gli alberi e raccogliere frutta e foglie fresche, c’è anche chi ha ipotizzato che questi dinosauri si nutrissero occasionalmente di insetti, e che gli artigli gli fossero utili per sventrare formicai e termitai, così come fanno i moderni formichieri, appunto.

Originariamente si pensava che il Notronico e gli altri Therizinosauri fossero imparentati con i “dinosauri-struzzo” quali l’Ornitomimo o il Gallimimo, in effetti i primi ritrovamenti di membri di questa famiglia hanno portato ad immaginarli come dinosauri-struzzo giganti, dato che si possedevano solo gli arti anteriori dell’animale (Deinocheirus), ma quando abbiamo scoperto fossili più completi è diventato chiaro che si trattava di qualcosa di completamente diverso, ed attualmente si pensa che i Therizinosauri abbiano antenati in comune con nientemeno che i Tirannosauri.

Come loro erano inoltre quasi certamente coperti in parte o integralmente di piume, ed inoltre in alcuni fossili sono state trovate tracce, nelle “braccia” e nella coda, di “punti di ancoraggio” per vere e proprie penne, che in questo caso, naturalmente, non sarebbero servite per il volo, ma per mettersi in mostra quando due esemplari della stessa specie interagivano fra di loro.

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L’Ambuloceto

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E’ difficile riuscire a farsi un’idea completa dell’evoluzione di una famiglia di animali nel corso della storia del mondo: l’evoluzione è un processo niente affatto lineare come ci piace pensare, ed è estremamente difficile mettere insieme i “pezzi” dell’albero genealogico di una creatura, quando fra l’uno e l’altro passano milioni di anni di tempo, ed almeno altrettanti sono trascorsi fra la formazione dei fossili ed il loro ritrovamento da parte nostra. Fra le storie meglio ricostruite dai paleontologi c’è quella dei Cetacei, che hanno iniziato ad adottare uno stile di vita anfibio quasi fin da subito dopo l’estinzione dei dinosauri, ed oggi parleremo di una di queste creature, l’Ambuloceto (Ambulocetus).

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Scoperto in Pakistan, l’Ambuloceto era uno strano mammifero, che aveva adottato una serie di adattamenti che gli consentivano di condurre uno stile di vita anfibio molto simile a quello dei coccodrilli: era lungo circa tre metri, e dotato di un un muso allungato e pieno di grossi denti triangolari, le sue zampe erano più lunghe di quelle dei coccodrilli rispetto al corpo, e la coda era ancora corta e non molto sviluppata. Questa combinazione ci lascia supporre che pur vivendo in modo analogo ai coccodrilli l’Ambuloceto avesse uno stile di nuoto più simile a quello di altri mammiferi anfibi, come le lontre, e che potesse muoversi ancora abbastanza bene anche sulla terraferma. Fra i caratteri che hanno portato i paleontologi a classificarlo come balena primitiva ci sono il fatto che non fosse già più dotato di un orecchio esterno, ma invece della stessa tipologia di apparato uditivo che è presente nei Cetacei attuali, ed era quindi in grado di sentire perfettamente sia dentro che fuori dall’acqua. Narici e palato inoltre erano in grado di “sigillarsi” quando l’Ambuloceto apriva la bocca, rendendolo capace di ingerire il cibo anche quando era sott’acqua, altro adattamento tipico dei Cetacei. In più la forma della testa e dei denti ricorda molto da vicino quella dei Basilosauri, le prime balene vere e proprie, e probabili discendenti di questo curioso “coccodrillo-lontra”. Quasi certamente era ancora ricoperto di peluria dato che, pur passando la maggiorparte del suo tempo in acqua, questo animale viveva in climi temperati.

Come detto all’inizio dell’articolo il viaggio dei Cetacei per tornare al mare è iniziato quasi subito dopo la scomparsa dei dinosauri (almeno di quelli non aviani), avvenuta 65 milioni di anni fa: l’Ambuloceto risale a circa 45 milioni di anni fa (i fossili più antichi sono datati 48 milioni, mentre i più recenti a circa 40) ed è il discendente di alcune varietà di mammiferi carnivori primitivi che presentavano una superficiale somiglianza ai Canidi, spinti verso una vita anfibia forse per dall’iniziale mancanza di grandi prede sulla terra ferma dopo la fine dell’Era dei Rettili. L’Ambuloceto viveva in un ambiente fluviale, o al massimo costiero, dove affinò i suoi adattamenti all’habita acquatico con il passare delle generazioni: i suoi discendenti, i già citati Basilosauri, si spostarono permanentemente in mare aperto, diventando predatori giganti ed andando quindi inizalmente a ricoprire il ruolo che un tempo era stato dei grandi rettili marini mesozoici, la deriva dei continenti e la formazione delle calatte polari tuttavia finì poi a spingere l’evoluzione dei Cetacei in una diversa direzione, lasciando solo una manciata di predatori giganti e portando le altre specie della famiglia a diventare animali più piccoli e rapidi, come i Delfinidi, o a specializzarsi in modi nuovi di nutrirsi, come nei Misticeti, ossia le balene dotate di fanoni.

Tutto a causa di un pugno di antichi mammiferi predatori che hanno iniziato a vivere come coccodrilli…

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